Credo esistano pochi atteggiamenti in grado di infastidire tutti, in modo trasversale rispetto ad età, condizione sociale, convinzioni politiche; uno è quello di chi, di fronte ad un'avversità, alza la voce per dire "l'avevo detto, io!": quella voce, ben lungi dall'essere accolta tardivamente come portatrice di una corretta profezia, suscita fastidio, e anche se fondata quell'uscita viene definita arrogante. Dunque quando Bertinotti, in un'intervista a Repubblica dei primi di dicembre, parlò di fallimento dell'Unione e del progetto politico del centrosinistra mi sono trattenuto dal dire, anche solo sommessamente, che quelle parole le avevano già usate altri in tempi più remoti, certi addirittura preconizzando quel fallimento prima del varo del programma (per alcuni già insufficiente in partenza, ma di cui oggi è sotto gli occhi di tutti l'esito negativo, nelle sue parti più connotate a sinistra).
Forse è davvero opportuno evitare la sciagurata frase "io l'avevo detto!" pure in politica, anche se andrebbero operati distinguo: riconoscere un errore (e le ragioni altrui) è utile non tanto per identificare colpevoli quanto per trovare rimedi e per evitare il ripetersi di sbagli analoghi o peggiori. In ogni caso le autocritiche vanno bene se spontanee: sollecitarle è vezzo persino peggiore di quella malaugurata frase, unire le due cose non farebbe che assommare iatture. Evitiamo dunque di spulciare le cronache per vedere chi (per primo o con maggiore lucidità) aveva previsto il disastro dell'Unione. Diciamo solo che parlare di fallimento dell'Unione senza dire che quel fallimento è anche la sconfitta di una linea politica fortemente voluta in primis dallo stesso Bertinotti mi sembra ingeneroso e miope. L'ingenerosità è sconsigliabile nella vita, se si vuole mantenere la dignità del guardarsi lo specchio la mattina; in politica la si può anche adottare, ma unita all'onestà intellettuale, che però non può accompagnarsi alla miopia. E mi dispiace, ma Rifondazione da tempo sembra procedere sulla spinta di periodiche interviste al proprio leader-ombra, che segnano la strada per i successivi interventi delle prime e seconde linee del partito.
A proposito di affermazioni che "dettano la linea", dobbiamo aggiungere quelle seguenti l'ormai celebre telefonata tra Berlusconi e Saccà. Ai fini di questa analisi non è importante valutare se nel contenuto della telefonata ci sia o meno rilevanza penale, e non si tratta neppure di vedere lo squallore della conversazione, indubbiamente presente. Il punto è: un alto dirigente RAI telefona al capo dell'opposizione (che è, contemporaneamente, proprietario del più importante pool televisivo concorrente), gli parla con una dignità da zerbino, lo informa di fatti inerenti il cda RAI, concorda dettagli sul palinsensto, riceve richieste puntuali.
E' abbastanza per far capire il significato di "conflitto di interessi"? Non sembra: persino Bertinotti si mette a chiosare circa la legittimità della pubblicazione delle intercettazioni (che sarà anche lesiva della privacy, ma nel contesto mi sembra di parlare di un'unghia incarnita per un paziente malato di cancro). Scordiamoci dunque una legge sul conflitto d'interessi, il centrosinistra non ha la forza o la volontà di metterci mano. Non affermare questa semplice verità significa avvicinarsi alla politica con inopportuno umorismo o con nefasta imperizia (e queste due categorie non sembrano applicabili al presidente della Camera) o che si ha la ferma intenzione di non scombussolare un quadro fluido e confuso, col solo risultato di lasciare il pallino del cambiamento in mano ad altri. Al Principe di Roma innanzitutto, che intreccia i suoi accordi e con cui si potrà trattare affinchè lasci alla sinistra una sorta di "riserva indiana" di esistenza.
Le quattro formazioni principali della sinistra, però, continuano a vendere come opzione salvifica la nuova aggregazione (federativa o di altra natura) delle loro forze, che però sembra il ribollire di frutta un po' andata che vuole nobilitarsi in marmellata. In sostanza, cosa vorrei dire ai dirigenti che si arrovellano circa il percorso unitario della sinistra? Semplicemente questo: non fingete di poter portare chissà quale influenza innovativa nel panorama politico italiano. Non contate, non contiamo, nulla; non stiamo assistendo al sorgere radioso del sole dell'avvenire, stiamo solo navigando a vista in un crepuscolo autunnale denso di insidie e pericoli.
Cari dirigenti, criticate Veltroni "da sinistra", e lo fate con ottimi motivi, ma sembrate non accorgervi di vivere in un Paese in cui il baricentro, culturale prima che politico, è spostato ben più a destra, in direzione reazionaria e fascista. Alessandro Dal Lago ha definito "imprenditori morali" quei politici (ma anche giornalisti, opinionisti ecc) che deformano dati statistici o di cronaca per costruire e oliare la feroce macchina della paura, che sta macinando decenni di conquiste in materia di diritti civili. Questa immagine, asciutta e significativa, è utile persino nel suo lessico "confindustriale": se Veltroni può essere ormai iscritto nel registro degli "imprenditori morali", voi siete solo i curatori fallimentari di un patrimonio di idee e valori: cercate almeno di non svenderlo. Quel che potete proporre è un'operazione di resistenza intellettuale e culturale di fronte ad un'ondata di barbarie a cui non avete e non abbiamo saputo opporci. Non è poco, e potrebbe persino non essere troppo tardi. Ma la prima condizione cui dovreste attenervi è questa: parlate chiaro, non giocherellate con le illusioni di compagne e compagni che si dibattono fra pessimismo della ragione e ottimismo della volontà. Tra poco meno di 60 giorni sarete chiamati a convertire in Legge un decreto, quello sulle espulsioni, non "degno di Berlusconi", ma degno della peggiore tradizione fascista.
I tre elementi cui Ferrero ha ancorato il proprio sì al provvedimento (superamento della Bossi/Fini e due provvedimenti su razzismo e omofobia) sembrano, più che tre pilastri come li ha definiti il ministro, tre puntoni di legno che sorreggono uno sgabello traballante. E donare ai colleghi del consiglio un calendario rappresentante "i marginali", i cui diritti vengono ulteriormente stracciati proprio da quel decreto, in un simile contesto appare più uno sberleffo che una testimonianza di civiltà. Se non ci rendiamo conto di questo, continuiamo pure a ballare sul Titanic dei diritti.
La tutela delle libertà civili dovrebbe essere al primo posto nella nostra agenda, invece ha lo stesso valore del calendario di Ferrero: è appesa alle nostra spalle, affinchè almeno non ce ne dimentichiamo. Ma nella battaglia politica i volti di quel calendario rischiano di diventare vittime collaterali, dolorose ma accettabili proprio come in ogni guerra che si rispetti: anche questa metafora dovrebbe ricordarci qualche altro "dettaglio" sparito dall'agenda per far posto alla realpolitik, risultato dell'impoverimento prima e della rassegnazione poi del nostro agire.
Dobbiamo muoverci (o resistere) "in direzione ostinata e contraria", ma sembriamo accontentarci di tenere la testa fuori per respirare e capire dove va la corrente, vendendo però questo risultato come la transizione verso le magnifiche sorti e progressive dell'umanità. Il tutto accompagnato da una claque plaudente di cui, è noto, abbisognano le sconfitte per potersi chiamare altrimenti, e nella prospettiva di leggere fra qualche anno una nuova intervista in cui si sancisce il fallimento di una stagione politica e si annuncia un nuovo giro di giostra.