Alla Stazione Principe un ferroviere guarda sfiduciato il tabellone. Sia in arrivo che in partenza si segnalano ritardi anche di un'ora e mezzo. La linea è tutta intasata per questioni di ordine pubblico», sospira. Sono le tre e il treno da Venezia non è ancora arrivato, quello da Milano neppure tantomeno quello da Roma via Pisa. Nella creuza sopra la Commenda di via Prè un egiziano sta legando il suo carretto pieno di vestiti, «Non ho paura della gente. Anche noi siamo gente», commenta.
Giù in via Gramsci c'è già una fiumana. Venezia sbarca con tutto il Nord-Est cantando «Carlo è vivo e lotta insieme a noi», si caccia in via Prè dove c'è anche Don Andrea Gallo che con un gruppetto della Comunità di san Benedetto raggiunge la testa del corteo per piazzarsi dietro lo striscione «La storia siamo noi». Saranno i centri sociali da qui in giù a fare più di mezzo corteo. Passa un tizio con cane, Stefano Cambiaso, eskimo con pelliccia, occhiali da sole: «L'ho preso dal canile. Sono qui perché sono antifascista». Negozi aperti pochi, ma a Genova dalle 12,30 alle 16 si chiude sempre, con qualche eccezione: «Non penso che venderò niente - dice Daniele Maloni, via Gramsci - ma un segnale volevo darlo. Penso che tutti possono manifestare quello che pensano». Rino, negozio d'abbigliamento da tre anni, si fa riprendere e fotografare da telecamere e fotografi, come i cinesi accanto con serranda a metà: «Ci sentiamo tranquille - dicono due donne - teniamo un po' chiuso perché abbiamo due bambini dentro il negozio, ma appena passa il corteo si riapre».
Don Gallo intanto sale dal palco e grida tra gli applausi «Dimostriamo cos'è la democrazia. Non lasciatevi provocare dai figli di puttane». Alle 16 «Genova libera» viene gridata decine di volte e poi rimbomba nel sottopasso di Caricamento. Era l'urlo di centinaia di persone davanti alla Diaz la notte del blitz e delle barelle, prima che se ne andassero polizia e carabinieri. Alla finestra in via Gramsci c'è affacciata la negoziante che vende ricordi e souvenir (intervistata ieri), batte le mani: «È mia figlia che mi ha fatto chiudere. Adesso scendo e riapro». Genova è in piazza. Passeggini, bambini per mano, famiglie intere, professionisti e aristocrazia del centro storico, operai, immigrati, senegalesi, bengalesi, il Nord Africa che qui sta di casa. La soddisfazione di vedere il corteo da vicino se la vogliono togliere tutti e perciò s'ammassano sugli spalti del sottopasso di Caricamento. Oppure salgono su scale e scalette: «Alla fine la gente mi sembra molto meno spaventata di quel che si dice - commenta Roberta Focacci, dipendente pubblica, sotto Santa Maria di Castello - anzi mi pare che i negozianti stiano aspettando i manifestanti».
Luca Casarini parla di moltitudini e dietro Cobas, una buona fetta di Cgil, pochi politici. Gli immigrati compongono una buona fetta di corteo, come hanno deciso in un'assemblea giovedì scorso organizzata dalla Cub genovese con 150 tra ecuadoriani, peruviani, senegalesi e rumeni: «Ero qui nel 2001 e oggi anche - racconta Aboubakar Soumahoro, senegalese, del Comitato immigrati in Italia - siamo 700 mila immigrati impiegati in edilizia, agricoltura, migliaia di badanti senza permesso che non verranno regolarizzate neppure dalla bozza Amato-Ferrero. C'è bisogno di un percorso culturale». Purtroppo mancano all'appello una ventina di ambulanti senegalesi perché c'è stata una retata davanti all'Acquario giusto l'altro ieri. Salendo verso Carignano, Marina maestra cinquantenne fa riprese con un'amica. «Le paure le lascio ai bottegai - commenta - sei anni fa sono stati picchiati anziani, bambini, persino gente che con le manifestazioni non c'entrava niente ma era andata al mare in corso Italia».
Davanti alla basilica di Carignano passano anche i pacifisti della rete per la globalizzaizone dei diritti. Tutti i mercoledì sono a piazza De Ferrari contro le guerre presenti e future. «La gente c'è - commenta Norma Bertullacelli - mi sembra che invece manchino i parlamentari che hanno votato il finanziamento di 30 milioni di euro per il vertice alla Maddalena». A De Ferrari tra sound e piadine, tutto è filato liscio. «È la risposta più bella a chi ha seminato odio e paure - dice il presidente regionale Arci Walter Massa - Dopo sei anni il movimento si è ripreso la città come ci hanno impedito di fare nel 2001. I black blok stavolta sono stati Primocanale e il Secolo XIX».
L'agibilità delle piazze in futuro potrebbe non essere così tranquilla. La riflessione arriva dal convegno della mattina «Genova 2001-2007: un altro mondo è possibile». L'avvocato Laura Tartarini del Genoa Social Forum ha ricordato come l'articolo 419 - devastazione e saccheggio - si configuri come reato indeterminato e per di più preveda il concorso di persone che condividono lo stesso spazio col corollario delle ultime disposizioni sulla sicurezza degli stadi.
Giuliano Pisapia, presidente della commissione del ministero della giustiza per la riforma del codice penale, ha dato una lettura lucida del 2001 quando «Le forze pacifiste furono spaccate al G8 tra la tragica deriva del territorismo o la desistenza dal creare un nuovo mondo possibile». Perciò in tempi in cui «Le norme sulla violenza negli stadi potrebbero essere applicate anche davanti a strutture pubbliche, posti di lavoro o scuole e contro chiunque si opporrà a leggi inique o comportamenti non leciti delle forze dell'ordine» c'è poco da stare tranquilli. L'unica è cominciare con un secco no «a chi invoca leggi speciali perché senza difesa delle libertà e dei diritti si arriva all'autoritarismo e all'annullamento di spazi democratici». Come quello di ieri.