Il crinale certo è sottile, scivoloso. Da un lato, vi può essere la solidarietà politica verso gli epigoni fuori tempo massimo delle Brigate rosse. Dall'altro, la solidarietà umana e la critica al regime di isolamento carcerario in quanto sistema di possibile violazione dei diritti umani. Le due cose possono sovrapporsi oppure no.
Non so esattamente come nasca l'iniziativa che si prefigge di manifestare il 3 giugno a L'Aquila contro il cosiddetto 41 bis, vale a dire il "carcere duro", e dunque quale di queste due possibilità sia in questo specifico caso più fondata.
La notizia ha creato attenzione e scandalo poiché in quel carcere è rinchiusa anche Nadia Desdemona Lioce, considerata figura di spicco tra i nuovi brigatisti, responsabili anche dell'omicidio di Massimo D'Antona, ucciso il 20 maggio 1999.
In questi stessi giorni, l'Ucigos ha diffuso un dossier secondo il quale crescono gli episodi di intolleranza, per fortuna soprattutto verbali: scritte sui muri, minacce, espressioni di odio politico. Un allarme raccolto dal ministro Giuliano Amato, che ha contribuito a enfatizzarlo.
Molta meno attenzione i media hanno dedicato a un episodio che va invece in direzione diametralmente opposta, dalla forte valenza simbolica e umana: il colloquio avvenuto tra Antonia Custra, figlia dell'agente di polizia ucciso durante una manifestazione del maggio 1997, e Mario Ferrandi, un ex autonomo responsabile di quella morte. Antonia Custra ha dichiarato: «Ho smesso di odiarlo. Ora mi è tutto più chiaro, ora so che siamo due vittime della stessa tragedia».
Ed è straordinario, oltre alla generosità della giovane donna, che una riflessione così pertinente e, al tempo stesso, inusuale, venga da chi è stato direttamente colpito, mentre non riesce a permeare il dibattito pubblico e politico.
Quando venne ucciso uno dei nuovi brigatisti, Mario Galesi, il ministro dell'Interno dell'epoca, Giuseppe Pisanu, espresse parole di pietà non solo per il poliziotto morto nel conflitto a fuoco, Emanuele Petri, ma anche per Galesi. Un gesto e un sentimento in grado di dimostrare la superiorità della democrazia sulle logiche di morte assai più di tanti discorsi o editoriali.
Eppure, a distanza di pochi anni, il clima è drasticamente peggiorato: il confronto si è avvelenato e il dibattito si è avvitato sterilmente. Complici in primo luogo i pallidi epigoni delle Br, che perseverano in una sciagurata proposta politica, omicida e suicida al tempo stesso. Ma al clima d'odio e di contrapposizione contribuisce indirettamente anche quella parzialità della memoria, quel ricordo a senso unico, quel doppio binario nel rispetto per le vittime che pare essersi ormai consolidato.
Pochi giorni fa, in un programma televisivo, il direttore de "la Repubblica" ha testualmente affermato: «La questione del terrorismo in Italia è chiarissima: è qualcosa che è impazzito nella metà del campo della sinistra, nella metà del campo del comunismo, ibridato con alcune istanze radicali».
In una rincorsa a destra della memoria, insomma, tutto ciò che è successo nei primi anni Settanta è stato censurato e rimosso dalla coscienza collettiva: le numerose stragi impunite, i tentativi di golpe, lo squadrismo neofascista, i pesanti inquinamenti antidemocratici di apparati dello stato e di pezzi dei partiti di governo, le trame autoritarie (che arrivano per la verità sino agli anni Ottanta, quando viene scoperta la loggia P2 e quando viene sciolta, nel 1984, la cosiddetta "Gladio civile", una struttura illegale e clandestina organizzata dall'Ufficio Affari riservati del Viminale), i complotti atlantici e i cinici giochi dei servizi segreti di entrambi i Blocchi, le pesanti repressioni antioperaie e antisindacali.
Tutto ciò, semplicemente, è stato tolto dai libri e dal discorso pubblico. Come se la storia non fosse un fatto processuale, che va valutato con sforzo di obiettività, in una necessaria linearità cronologica.
Temo che un tale livello di falsificazione storica possa concorrere a dare fiato e argomenti anche a chi ha nostalgia del clima d'odio e di violenza politica di trent'anni fa.
Non so se chi manifesterà a L'Aquila sarà mosso da sentimenti di simpatia politica o di solidarietà umana verso persone recluse. So però che la solidarietà umana, se è fatto autentico, non si può accompagnare a parole violente e a sentimenti d'odio.
Personalmente penso che la solidarietà verso i carcerati (verso qualsiasi carcerato per qualsivoglia reato) sia fatto condivisibile: non per "buonismo", ma perché credo che anche il peggiore criminale in carcere diventa in qualche modo persona debole, in certo senso vittima. Purché vi sia chiarezza nei giudizi. E a patto che la solidarietà umana si accompagni in maniera inequivoca con la critica politica verso l'uso delle armi e verso ogni logica di violenza politica.