Rete Invibili - Logo
"Noi la farem vendetta"
Giovanni De Luna
7 agosto 2006

Noi la farem vendetta, romanzo di Paolo Nori, Feltrinelli, pp. 168, euro 14

ESCE A SETTEMBRE UN ROMANZO CHE RICOSTRUISCE «I FATTI DI REGGIO EMILIA» E LA RIVOLTA CONTRO IL GOVERNO TAMBRONI

1960: la lunga estate calda

Nel passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica molte date fatidiche sono uscite dalla lista degli anniversari che nutrono la memoria pubblica. È successo per il 18 aprile 1948 della vittoria democristiana, per il 14 luglio 1948 dell'attentato a Togliatti, per il 1953 della «legge truffa», ecc... E' successo così anche per i fatti del «luglio '60», anche se oggi gli storici hanno molto accentuato il carattere di «svolta» assunto proprio da quei fatti. Ricordiamoli. L'Italia era allora in pieno boom economico. L'indice della produzione industriale era aumentato del 120%, il reddito nazionale del 78%. Una grande ondata migratoria aveva ridisegnato i confini geografici e sociali della penisola: i rapporti interpersonali, l'organizzazione familiare, i ruoli sessuali, le stesse concezioni del mondo si decomponevano e si trasformavano contemporaneamente all'inserimento di migliaia e migliaia di individui in situazioni lavorative e esistenziali completamente diverse.

Il «luglio '60» si inserì in questo scenario tumultuoso e per molti versi esaltante. Sotto l'urto dei grandi cambiamenti era diventato maturo il passaggio dal centrismo al centrosinistra, con un governo allargato ai socialisti. Da mesi ormai si parlava insistentemente di «apertura a sinistra». Non era facile, soprattutto per la Dc. Ottanta suoi parlamentari (scelbiani, andreottiani e anche dorotei) si erano appena pronunciati nettamente contro quell'ipotesi. In un clima di grande incertezza, e grazie alla mediazione di Aldo Moro, si era deciso di varare un monocolore «non programmaticamente impegnato», affidato a Fernando Tambroni, un avvocato di 59 anni, di Ascoli Piceno. Il suo governo passò al Senato, il 29 aprile, con l'appoggio determinante dei voti dei neo-fascisti del Msi. Di fatto Tambroni si trovò così a interpretare il ruolo dell'ultimo baluardo prima di un'apertura a sinistra giudicata una catastrofica resa ai comunisti, giovandosi degli appoggi di uno schieramento eterogeneo in cui confluivano le gerarchie vaticane più tradizionaliste, settori della destra economica e i fascisti. Tambroni si adeguò con molta facilità a questo quadro che egli stesso inizialmente non aveva certo preventivato. Nel 1955 era stato ministro degli interni e si compiaceva di un' autorappresentazione da uomo forte: «L'onorevole Tambroni - notava del suo ufficio stampa - appartiene a quella borghesia maschia e virile che si affaccia ai problemi sociali e politici senza infingimenti, ma soprattutto senza paura. È un lavoratore efficiente e metodico in un mondo di pigri, un solutore di problemi legislativi». Fu all'interno di queste coordinate, politiche e caratteriali, che si confrontò con i fatti del «luglio '60».

Tra il 28 e il 30 giugno Genova fu teatro di gravi scontri tra manifestanti e forze dell'ordine. Motivo scatenante era stata la designazione del capoluogo ligure, città medaglia d'oro della Resistenza, a sede del congresso missino. Si registrarono 83 feriti e i sindacati proclamarono lo sciopero generale che fu revocato solo quando il congresso del Msi venne spostato a Nervi. Il 5 luglio a Licata si era indetto uno sciopero generale contro la disoccupazione e lo smatellamento dell'unica fabbrica della zona. Il corteo degli scioperanti fu affrontato dalla polizia che sparò, uccidendo un operaio di 25 anni, Vincenzo Napoli, e ferendo gravemente altri cinque lavoratori. Era già successo più volte che la polizia facesse uso di armi da fuoco per il mantenimento dell'ordine pubblico uccidendo operai a Modena e braccianti a Melissa. Questa volta però ci furono reazioni immediate. A Roma gli antifascisti organizzarono un comizio a Porta San Paolo, il 6 luglio; furono immediatamente caricati dalla polizia a cavallo comandata dall'olimpionico Raimondo D'Inzeo. Sciabolate, piattonate, manganellate spalancarono una spirale di violenza. Il 7 luglio, per protestare contro quelle cariche, ancora uno sciopero, a Reggio Emilia. Altri scontri, altri spari della polizia e, purtroppo, altri morti. Questa volta sono cinque: il primo a cadere fu Lauro Ferioli, 22 anni, padre di un figlio; poi Marino Serri, 40 anni, ex partigiano; Ovidio Franchi, 19 anni; Emilio Reverberi, 30 anni, operaio, ex partigiano; Afro Tondelli, operaio, 35 anni. Il giorno dopo gli scioperi dilagarono un po' dappertutto; il presidente del senato, Merzagora, rivolse un appello per «un'immediata tregua politica di quindici giorni, proponendo il ritiro nelle caserme della polizia e delle forze armate, la sospensione degli scioperi e delle manifestazioni e l'apertura di un dibattito in parlamento». Ma non era finita: a Palermo furono uccisi dalla polizia un ragazzo, Andrea Gangita, e un uomo di 42 anni, Francesco Vella; a Catania toccò a un disoccupato di 22 anni, Salvatore Novembre. Gli echi politici e parlamentari di questi morti non tardarono a farsi sentire. Le responsabilità del governo nelle modalità d'impiego delle forze dell'ordine erano evidenti. Invano Tambroni tentò di accreditare la versione di un complotto comunista orchestrato da agenti cecoslovacchi. La Dc decise di abbandonarlo e l'ultimo suo grande protettore, l'allora presidente della repubblica, Gronchi, non era più in grado di aiutarlo. Tambroni si dimise il 19 luglio. Una settimana dopo l'incarico di formare il nuovo governo fu affidato a Fanfani. La strada verso il centrosinistra era aperta.

Il «luglio '60» fu complessivamente declinato nel segno dell'antifascismo. I primi ad esserne consapevoli furono proprio i contemporanei. «L'ipotesi più attendibile e più confortante - scrisse allora Passato e presente - è che in luglio le masse si sono battute per la libertà: per una libertà minacciata, sì, ma certo più per una libertà da conquistare che da difendere. Si è lottato contro la cancrena diffusa nell'organismo sociale e politico attraverso l'insolente furfanteria dei politicanti, la corruzione del sottogoverno, la grettezza bigotta della censura, la tracotanza padronale della fabbrica, l'avvilimento della scuola, l'istituto della raccomandazione sostituito al diritto al lavoro, la retorica nazionalistica sciorinata a coprire le piaghe sociali».

E proprio da questo stretto intreccio con l'antifascismo nasce probabilmente la scomparsa di quell'evento dall'agenda della memoria ufficiale, dopo la grande glaciazione degli Anni 80 e 90. Pure, ci sono altre memorie, altri ricordi più spontanei, più legati alla dimensione familiare e amicale che resistono tenacemente, hanno una loro intrinseca vitalità pure se non sono riconosciuti dalle istituzioni. Subito a ridosso del «luglio 60», Fausto Amodei scrisse un canzone che è rimasta scolpita nei cuori dei giovani di allora. I suoi versi accennavano esplicitamente alla continuità con la Resistenza, accomunando i morti di Reggio Emilia ai caduti partigiani. C'è stato un film Vento di luglio, che comincia con gli spazzini che puliscono il sangue davanti al teatro dove c'era stato l'eccidio; esiste un cd con la registrazione sonora degli scontri, sirene della polizia, bandiera rossa, spari, urla di assassini, vigliacchi. Esistono i libri di storia. E ora c'è un romanzo (Noi la farem vendetta, Feltrinelli, pp. 168, euro 14; in uscita il 7 settembre) di Paolo Nori, un giovane scrittore che grazie al suo talento è riuscito a ricucire insieme nel suo racconto la storia, i ricordi, l'attualità. Con una scrittura frammentata, fitta di piccoli brani che si susseguono in un continuo andirivieni tra ieri e oggi, il suo libro è innanzitutto una meticolosa ricostruzione della giornata del 7 luglio a Reggio Emilia; ci sono gli scontri, la confusione degli spari e delle grida dei feriti, l'incredulità, la rabbia, la disperazione. Da quella giornata si allargano tanti cerchi concentrici che partono dal passato (la vigilia e i giorni immediatemente successivi, il clima politico dell'Italia di allora, la ripresa vigorosa dell'antifascismo politico e culturale dopo l'eclissi degli Anni 50, le inchieste e l'impunità garantita alla polizia e ai carabinieri) e arrivano al presente (le immagini degli scontri a Genova nel 2001, in occasione del G8, e la loro capacità di innescare i circuiti della memoria; un'altra lunga eclissi dell'antifascismo prima sepolto e imbalsamato nell'ufficialità istituzionale, poi cancellato dll centro destra; l'afasia della memoria, che stenta a trovare il modo di raccontarsi). Alla fine, oltre alla storia, oltre alla scoperta della verità su quei «fatti», quello che resta al lettore è però soprattutto il registro dolente e amaro dei ricordi dei familiari, il loro mesto interrogarsi sul perché di quelle morti, la loro rassegnazione a non vederli mai più «uscire dalla fossa».