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Io Piero lo conosco, l'ho visto a Genova
I ragazzi romani incontrano alla Garbatella i compagni del diciottenne ucciso trent'anni fa
di Checchino Antonini
Fonte: Liberazione della domenica 27 novembre '05
27 novembre 2005

Urlava di dolore Piero mentre lo trascinavano per le ascelle quasi sotto il cancello dell'ambasciata dello Zaire. Strillò «No!», con le mani a coprirsi la faccia. Lo sentì chiaro e forte la signora affacciata su Via Muratori, una strada del centro di Roma che s'arrampica sul Colle Oppio, di fronte al Colosseo. E' il pomeriggio del 22 novembre '75. Un corteo andava da S. Maria Maggiore a Piazza Navona. Piero Bruno era un diciottenne di Garbatella, studiava all'Armellini, andava agli scout e faceva politica in Lotta continua.
Sarebbe morto il giorno dopo. La signora aveva sentito il ragazzo lamentarsi, dopo la gragnuola di colpi. Lui le diceva di non sentire più le gambe. L'avevano colpito alla schiena. Poi la signora vide l'uomo arrivare e puntare una pistola sul ragazzo sdraiato: «Cane, bastardo, carogna... ti ammazzo». Piero fece per coprirsi la faccia ma l'uomo "scherzava", la pistola che gli puntava alla tempia era scarica. Il cane scattò a vuoto "pronunciando" il "click" tante volte letto sui giornaletti. La donna vide l'uomo chinarsi e lo sentì dire al ragazzo: «Ma io ti ammazzerei veramente...». L'uomo era un agente della polizia politica, antenata della digos. Ma Piero Bruno stava sempre più male perché già colpito alla schiena, non poteva più muovere le gambe. E l'emorragia interna stava facendo il suo mestiere di complice del delitto.
Era solo, in mezzo alle "guardie" inferocite, che lo trascinavano, già ferito, più vicino possibile all'ambasciata per mascherare un loro agguato in un assalto da cui si sarebbero dovuti difendere. L'ambulanza, colpevolmente in ritardo, lo portò al S. Giovanni dove sarebbe morto il giorno dopo, piantonato. Era lui il "criminale", lui che s'era staccato con un gruppo di compagni di Lotta continua dal corteo che manifestava per la giovanissima Repubblica popolare dell'Angola. Volevano fare una fiammata sul cancello dell'ambasciata dello Zaire, paese confinante che - in buona compagnia del Sudafrica dell'apartheid, di Usa e Cina - armava e pagava i mercenari che combattevano la fragile democrazia popolare di Agostino Neto, poeta e presidente.
L'azione di Piero era solo dimostrativa, sarebbero tornati in corteo abbracciati dai compagni. Una fiammata e basta, rogna momentanea solo per chi avrebbe dovuto ripulire la scena. Ma la polizia e i carabinieri li aspettavano, imboscati, loro con due "bocce", le guardie con le armi in pugno, sparò anche un ufficiale dei carabinieri, spararono «in piedi con l'avambraccio ad angolo retto rispetto al braccio, e da terra con l'avambraccio verso l'alto, sempre in direzione del gruppo di giovani» (deposizione degli agenti), spararono per ammazzare e un giudice, un anno dopo, trovò la reazione dei militi «commisurata all'offesa». «Irresponsabili», si scrisse sulla sentenza di insabbiamento, furono casomai i manifestanti.
Tutto archiviato, secondo copione: archiviato l'inseguimento di ragazzi disarmati, archiviati i bossoli conficcati nelle macchine, doveva essere così. A nulla valse lo sforzo di Umberto Terracini, figura mitica di dissidente del Pci, padre costituente e del Soccorso rosso; a nulla servì il lavoro di legali e della controinchiesta dei suoi compagni. Marco, un altro architetto che curò questa e altre perizie del genere, non resse lo choc. Morì nei primi anni '80, ancora turbato.
Furono zittiti e intimiditi i testimoni; fu negato un pubblico dibattimento. Restano, ingialliti, gli spezzoni dei cinegiornali dell'epoca, le foto stupende (e il racconto) di Tano D'Amico, i titoli dei giornali "normali" a scimmiottare una distanza da entrambe le parti "in guerra", a offrire due versioni solo apparentemente simmetriche.
Il chirurgo della rianimazione imprecò: «Mi hanno incastrato», disse e tirò dalla finestra, a certi amici, le chiavi della macchina. Per colpa di un diciottenne coi capelli lunghi doveva saltare la cenetta del sabato sera. Poi aprì e ricucì Piero. Furono attimi concitati. Tano D'Amico era lì con un altro giovane di Lotta continua, la stessa organizzazione di Piero. Era un architetto, figlio dell'allora segretario della Dc. Raccontò piangendo la scena a suo padre, medico a sua volta. Allora arrivò un'altra equipe che riuscì a estrarre i proiettili dal corpo di Piero. Ce l'avrebbe fatta, dicevano, se solo avesse superato lo choc di due operazioni una dopo l'altra. Troppo anche per un corpo sano. E' domenica 23 novembre '75.
Qualcuno disse di aver visto Piero sorridere, si disse che avrebbe detto all'infermiera: «Ci penseranno i compagni a vendicarmi». E' da trent'anni che i suoi compagni lo vendicano. Di Piero parlano ancora i muri della Garbatella. Questo tipo di "vendetta" è un'operazione lenta. Serve pazienza oltre alla passione che ti fa gridare in piazza. I compagni di Piero lo vendicano, ad esempio, ogni giorno facendo scuola a bambini del quartiere, migranti e "indigeni", che rischiano di restare indietro nella infame scuola morattiana. Lo vendicano «rimettendo in circolo la memoria storica di questi partigiani degli anni '70», spiega Massimiliano Smeriglio, ragazzo della Garbatella pure lui, e ora presidente del Municipio Roma XI dove una strada porterà presto il nome di Piero Bruno. Giusto trent'anni dopo, la Brasmati orchestra, banda cresciuta in un centro sociale romano, soffia negli strumenti a fiato l'inno dell'African national congress. Sulla stradina di Garbatella gli vanno dietro 100-200 persone attente a non bloccare il traffico. La banda si ferma davanti a un muro dove un telo nero nasconde un murales dedicato a Piero e Carlo. Più sotto la banda suona ancora, vincendo il freddo pungente, mentre qualcuno sistema una corona d'alloro su un'altra targa con tanti nomi di ragazzi come Piero e Carlo. Ma c'è un altro nome che conta in questa storia. Quello di Fabio Agostini, Fabietto. Ferito anche lui quella sera all'ambasciata. La sua ferita era di quelle che non si notano a occhio nudo e nemmeno con lo stetoscopio. Dopo un anno non ce l'ha fatta più e s'è tolto la vita.
Carlo, invece, è uno degli artefici del piccolo rito con la banda e le targhe che si ripete da un po', ogni 23 novembre, davanti al centro sociale La Strada. E' stato Carlo Giuliani, sono state le immagini di Genova, a far rispuntare tanti "ex" a fianco dei giovani del quartiere. Ne è convinto anche Erri De Luca, oggi scrittore, ieri responsabile del servizio d'ordine di Lotta Continua. La sua faccia campeggia spesso nel video "Piero Bruno, ragazzo" proiettato in prima "mondiale", la sera del trentennale, nel centro sociale La Strada. Lo hanno realizzato e montato quelli della Casa della memoria che ricercano storie e le restituiscono alla città sotto forma di video o di giornali o di assemblee. Hanno vinto il "bando delle idee" del municipio e sono andati a interrogare i compagni di Piero. Avevano fatto lo stesso alle Fosse Ardeatine o per i fatti di Garbatella del 27 maggio '70, quando il quartiere ospitò e protesse dalle scorribande di polizia migliaia di contestatori del vertice Nato in corso all'Eur. Sullo schermo spezzoni di cinegiornali di Silvano Agosti, i compagni di Piero con le barbe brizzolate e gli occhiali per leggere sul naso. Poi c'è Piero che brinda in un'osteria, che sfila in corteo, che suona la chitarra. Sul muro ci sono i giornali dell'epoca, una lettera dei suoi amici scout, la poesia del soldato angolano commosso dalla sorte di questo coetaneo così lontano. Era bello Piero, come tutti a diciott'anni. Chissà se poi non si sarebbe ricreduto, scomparendo nei riflussi come gran parte della sua generazione. Comunque l'avrebbe dovuto scegliere lui e non l'uomo della polizia politica, il tenentino dei carabinieri e il procuratore che archiviò tutto.
Lucia, sua sorella, e Haidi Giuliani e altre madri, sorelle e compagni lavorano in rete perché di Piero e gli altri non si perda il ricordo. Seppellito dai depistaggi e dalle archiviazioni annunciate. Anche una fiction, di quelle coi poliziotti tutti senza macchia, è un depistaggio.