Un «basista» era indispensabile al disegno stragista partito da Venezia. La sentenza della Corte d'appello punta il dito contro colui che nel 1982 (nella sentenza di secondo grado della prima istruttoria) venne definito «un cadavere da assolvere»: Ermanno Buzzi, giovane bresciano che si muoveva tra criminalità comune, traffico di opere d'arte ed estremismo di destra.
È lui la figura chiave della «pista bresciana», condannato in primo grado e scagionato in appello nel 1982. Da morto. Un anno prima era stato assassinato dai terroristi neri Pierluigi Concutelli e Mario Tuti nel carcere di Novara.
Per l'accusa Buzzi era stato convinto dal generale Delfino a forza di pressioni a prendersi la colpa per depistare le indagini. Ma ricordando la sentenza in appello di Venezia datata 1985 (per cui «Buzzi avrebbe partecipato alla commissione della strage, anche tenuto conto della sua provata appartenenza all'organizzazione terroristica, dei volantini redatti il 21 e il 27 maggio 1974 e della sua provata dimestichezza con armi ed esplosivi»), la corte, oggi, ritiene che anche per i suoi rapporti con gli estremisti veneti e milanesi «non vi siano agli atti elementi tali da escludere con sicurezza che Buzzi abbia potuto concorrere alla fase esecutiva della strage, o assumere un ruolo nella preparazione o nell'attuazione dell'attentato».
In questa ottica «non può non rivelarsi contradittoria l'imputazione a carico di Delfino che avrebbe perseguitato proprio colui che, nella ricostruzione accusatoria, potrebbe aver collaborato con quegli imputati materialmente e moralmente responsabili della strage». Il coinvolgimento di Buzzi nella strage porta dritto all'assoluzione di Delfino. Ma c'è di più. «Quello che occorreva dimostrare (e che non è stato dimostrato) era il fatto che la contiguità mostrata da Delfino rispetto ad alcune frange estremiste di destra fosse funzionale a una condivisione di progetti terroristici, anziché a fini investigativi, nonché indicativa della sua corresponsabilità nella strage». Piuttosto, per i giudici, l'azione di Delfino aveva «una finalità di carriera». Esemplare viene considerata, in tal senso, l'operazione «Basilico» che nel marzo del 1974 portò all'arresto, in Valcamonica, di Kim Borromeo e Giorgio Spedini, sorpresi con 57 chili di esplosivo in auto, grazie alla collaborazione di Giovanni Maifredi, infiltrato di Delfino. La sentenza assolve anche Maurizio Tramonte, le cui dichiarazioni nelle veline informative «non possono definirsi confessorie», considerato che raccontano «la sua presenza agli incontri degli ordinovisti in qualità di infiltrato dei servizi». Non come complice, dunque. Ruolo svolto anche nella riunione del 25 maggio ad Abano terme in cui, per l'accusa, fu pianificata la strage.
Un'interpretazione di cui sta prendendo atto, pagina dopo pagina, proprio in queste ore, anche Manlio Milani, presidente della Casa della Memoria. Milani non se la sente di commentare a caldo. E aspetta di trovare «l'atteggiamento emotivo sereno necessario alla lettura». Non si fa attendere, invece, il commento di Federico Sinicato, storico difensore dei familiari delle vittime, anche di piazza Fontana, che annuncia il ricorso in Cassazione. «I giudici indicano chiaramente le responsabilità di Digilio, l'artificiere di Ordine Nuovo. La rivalutazione del suo ruolo, che per una sorta di burocrazia processuale non viene legato a Zorzi e a Maggi, è la conferma che l'inchiesta originaria del giudice Guido Salvini aveva colto nel segno e se a Milano ci sarà una riapertura delle indagini è da lì che si deve partire senza andare a cercare altre piste».
M. R.