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Generale Delfino, ci dica tutto. Ma ai giudici

Cortese generale Delfino,

abbiamo letto sulla stampa e abbiamo visto on line le sue esternazioni all'indomani della sentenza d'appello nella quale è stato assolto dall'infamante accusa di aver avuto un ruolo nella Strage di piazza della Loggia del 28 maggio 1974. Davanti alle valutazioni secondo le quali rimane convinto che a mettere la bomba furono esponenti bresciani dell'eversione nera, viene spontaneo chiederci cosa abbia impedito trent'anni fa di arrivare ad una verità giudiziaria che suffragasse quelle indagini nelle quali lei e i suoi uomini era parte attiva. Ci dica: cosa sbagliò allora? E se la verità da lei costruita è finita, nonostante le ferree convinzioni che la sostengono ancora oggi in una assoluzione generale, per i vivi, ma anche per i morti, chi ostacolò il raggiungimento della verità?

Sono domande, caro generale, che sorgono spontanee visto che lei è unanimamente definito, dagli atti giudiziari, parlamentari e dalla storia recente, personaggio ricorrente nelle indagini e nei misteri di quegli anni. Anni che per lei sembrano passati invano, visto che insiste su vecchie tesi, abbondantemente passate in giudicato, tanto che ogni ulteriore reiterazione di nomi e circostanze appaiono persecutorie per coloro che hanno conosciuto il carcere, l'assoluzione e ora chiedono solo l'oblio nella loro nuova vita. Sarebbe interessante, quindi, se lei si decidesse finalmente a raccontare tutto, a riferire senza reticenze, a farci capire fino in fondo cosa accadde in quegli anni, chi coprì e chi depistò. Limitarsi a difendere i risultati di una vecchia inchiesta non rende onore alla fama di uomo dei servizi e professionista che, prima di quel brutto e triste episodio legato al sequestro dell'industriale Giuseppe Soffiantini che lo fece finire in carcere e sotto processo per accuse infamanti con relative condanne, le aveva fatto percorrere l'intera carriera milate, da semplice carabiniere a generale. Difendere quella pista bresciana la fa assomigliare a quegli investigatori a senso unico che preferiscono lasciare un caso irrisolto pur di non mettere in discussione le proprie conclusioni ritenute dai giudici troppo labili o prive di fondamento.

Ci piacerebbe soprattutto, caro generale, sentirla raccontare cosa accadde in quegli anni non sotto un pergolato a due passi dal mar Tirreno di Santa Marinella, ma davanti ad un giudice, che possa cercare di aiutarla ricordare, che possa contestarla se ciò serve a raggiungere la verità. Quella verità che dovrebbe stare a cuore anche a lei, ex servitore dello Stato, suo uomo di fiducia in tante rischiose operazioni. Non faccia anche lei come molti suoi colleghi che si sono seduti in un'aula (da testimoni non potevano sottrarsi a questo impegno) e hanno preferito far la parte del pensionato smemorato, del funzionario reticente, del custode di segreti di uno Stato patrigno incapace di fare i conti con il passato.

Lei ha sostenuto di non essere intervenuto al processo in primo grado a Brescia a causa delle sue condizioni di salute e di un prolungato ricovero ospedaliero. Crediamo che forse la Corte d'assise sarebbe stata disponibile a trovare una soluzione (dalla trasferta a Roma, alla videoconferenza) che le garantisse di dire la sua su una vicenda tanto importante per la città. In ogni caso avrebbe comunque potuto spiegare, altrettanto efficacemente, le sue ragioni ai giudici nel processo d'appello che si è chiuso alcune settimane fa. Insomma, con un po' di buona volontà, avrebbe dato un utile aiuto, dall'alto delle sue conoscenze, alla ricerca della verità. Così non è stato ed è un peccato per tutti. Lei avrebbe potuto gioire della sua assoluzione con la consapevolezza di aver dato il suo contributo, senza se e senza ma, alla ricerca della verità. Un bello scatto di orgoglio civile, un bello squarcio di sole dopo tante nubi per un ex servitore dello Stato del suo calibro...