La vicenda giudiziaria (lunga ormai 36 anni) relativa alla strage di Piazza della Loggia è un labirinto composto di 5 fasi istruttorie e 8 fasi di giudizio. Nessun colpevole è stato condannato in via definitiva, ma le sentenze hanno via via sedimentato un patrimonio di conoscenza circa uno degli episodi più gravi della strategia della tensione.
Innanzitutto, inquadriamo il contesto: la strage avvenne in un momento politico delicatissimo - poco dopo la sconfitta del fronte conservatore nel referendum per il divorzio - e in un quadro di profonda instabilità politica (la formula di governo di centro-sinistra è ormai quasi del tutto esaurita). Altre inchieste giudiziarie hanno rivelato come in quell'anno 1974 si agitassero nell'ombra trame golpiste: dalla vicenda della "Rosa dei venti" al cosiddetto "Golpe Bianco" di Edgardo Sogno. La bomba del 28 maggio colpì al cuore una manifestazione antifascista indetta per protestare contro una serie di attentati di marca fascista, culminati nella morte del giovanissimo terrorista di destra Silvio Ferrari, legato al gruppo "La Fenice", nella notte tra il 18 e il 19 maggio 1974, ucciso dall'esplosivo che lui stesso stava trasportando in motorino nel centro di Brescia, a Piazza del Mercato.
Il giudice istruttore Giampaolo Zorzi (infelice omonimia con l'ordinovista Delfo), che ha lungamente indagato sulla strage dagli anni Ottanta, ha usato per descrivere la progressione delle cinque istruttorie l'immagine dei cerchi concentrici prodotti da un sasso gettato nell'acqua: dal primo filone investigativo, incentrato su figure del neofascismo locale, le indagini si sono allargate, fino a inserire l'azione bresciana in una rete operativa eversiva ben più ampia, inquadrando compiutamente la strage bresciana nel contesto della "strategia della tensione" da piazza Fontana (dicembre 1969) all'attentato sul treno Italicus (agosto 1974).
Il primo filone d'indagine (prima e seconda istruttoria) inizia nel 1974 e si conclude con la sentenza di Cassazione del settembre 1987; si focalizza principalmente su una pista locale: s'indagano piccoli delinquenti e giovani estremisti di destra della Brescia-bene, sulla base di dichiarazioni e confessioni. Figura chiave dei processi della "pista bresciana" fu Ermanno Buzzi, un oscuro personaggio che si muoveva tra criminalità comune, traffico di opere d'arte ed estremismo di destra. Condannato in primo grado, alla vigilia del processo d'appello (aprile 1981) Buzzi fu trasferito al carcere speciale di Novara, dove, nel giro di ventiquattr'ore, fu assassinato dai noti terroristi neri Pierluigi Concutelli e Mario Tuti. Un'esecuzione feroce: lo strangolano coi lacci delle scarpe e gli schiacciano gli occhi.
Un secondo filone d'indagine parte nel 1984 con la terza istruttoria, alimentata da informazioni provenienti da pentiti e dall'ambiente carcerario, e si conclude nel 1993 con la sentenza-ordinanza emessa dal G. I. Gianpaolo Zorzi.
Imputato per strage nel secondo processo fu Cesare Ferri, estremista di destra collegato al gruppo ordinovista milanese della Fenice di Giancarlo Rognoni e alle S. A. M. (Squadre armate Mussolini) di Giancarlo Esposti. Ferri fu accusato principalmente sulla base del riconoscimento da parte di un sacerdote che affermò di averlo visto in una chiesa a Brescia la mattina del 28 maggio.
I cerchi si allargano fino ad attingere, nella quinta istruttoria, una rete eversiva molto più ampia: la cabina di regia della strage viene individuata nella cellula mestrina dell'organizzazione eversiva neofascista Ordine Nuovo (la stessa di piazza Fontana), in collegamento al gruppo milanese della Fenice di Rognoni. Tale istruttoria ebbe origine da una "coda" del processo a Cesare Ferri: il giudice Zorzi identificò nel giovane missino Maurizio Tramonte la fonte "Tritone" (che era l'informatore dietro una mole di documenti emersi dagli archivi del Sid a partire dalla fine degli anni Ottanta). Nel 1995, Tritone-Tramonte comincerà a collaborare con i ROS dei Carabinieri.
Alla base del terzo processo, il cui primo grado si è concluso ieri pomeriggio, c'erano proprio le "veline" del SID e le dichiarazioni di Tramonte in veste di collaboratore, insieme ai copiosi materiali provenienti dall'istruttoria del G. I. Salvini per la strage di piazza Fontana (centrali anche nel processo di Brescia le dichiarazioni del pentito Carlo Digilio, alias "zio Otto", l'armiere di Ordine Nuovo, unico condannato nell'ultimo processo per la strage di piazza Fontana). A partire da "Tritone" e Digilio, l'imputazione per concorso in strage è stata infatti estesa ai vertici mestrini di Ordine Nuovo (Maggi e Zorzi), a Pino Rauti e al generale dei carabinieri Francesco Delfino, che fu incaricato delle indagini alla base della prima istruttoria.
È facile comprendere che provare in sede penale "al di là di ogni ragionevole dubbio", secondo la celebre formula, coinvolgimenti così gravi e insieme delicati, documentare quale sia stato effettivamente il ruolo di un generale dei Carabinieri senza potersi giovare, ad esempio, della documentazione del centro di controspionaggio di Padova (dove operava il Maresciallo Felli, che gestiva la fonte Tritone), che è stata interamente distrutta, è molto, molto arduo. In attesa delle motivazioni, per figurarsi come mai si sia arrivati, dopo due anni di dibattimento e migliaia di pagine di verbali, a delle assoluzioni, "perché la prova manca, è insufficiente o contraddittoria" (art. 530 comma 2) è fondamentale andare a rileggere quella sentenza-ordinanza del 1993, dove il giudice istruttore Zorzi descrive un quarto livello di responsabilità, "non concentrico - scrive - ma intersecantesi con gli altri e quindi sempre presente, come un comune denominatore: quello dei sistematici, puntuali depistaggi", dal lavaggio della piazza dopo l'eccidio, alla misteriosa scomparsa di Ugo Bonati, figura chiave nel primo processo, all'omicidio che ha chiuso per sempre la bocca a Buzzi; depistaggi che sono arrivati persino a sabotare la rogatoria in Argentina per impedire l'interrogatorio di Gianni Guido, criminale legato all'estrema destra e latitante.
I depistaggi hanno ostacolato il raggiungimento di una verità processuale. Fuori dall'aula, però, non potranno ostacolare la ricerca degli storici, né cancellare la memoria dei cittadini bresciani che ieri hanno visto nuovamente frustrato il loro bisogno di giustizia.