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Il giorno in cui Roi Hagen provò per una volta vergogna
Giovanni Maria Bellu
Fonte: L'Unità, 17 novembre 2010
17 novembre 2010

Ma Manlio Milani si è fatto giustizia da sé. Una vendetta civile davanti alla quale si può soltanto chinare il capo e dire grazie. Manlio Milani, il presidente dell'associazione dei familiari delle vittime della strage di Brescia, quel 28 maggio del 1974 aveva 34 anni ed era un operaio dell'azienda elettrica. Sua moglie Livia Bottardi ne aveva 32, faceva l'insegnante, sognava di andare a lavorare in Sud America. Manlio sognava con lei e progettava di chiedere l'aspettativa. La sera prima avevano cenato con una coppia di amici, Clementina Calzari e Alberto Trebeschi, e si erano dati appuntamento in piazza della Loggia. Infatti Clem ed Alberto erano là, tra la folla. Fu Livia a scorgerli e ad andar loro incontro. Manlio si fermò un momento per dire qualcosa a un compagno che conosceva. Livia si voltò per vedere dove fosse. «Arrivo», gridò Manlio. Un istante dopo la vita finì. Fini tutto. Morì Livia, morirono Clem e Alberto. Trentasei anni fa. Più anni, per non avere giustizia, di quanti Manlio ne avesse vissuti fino a quell'istante. Si è fatto giustizia da sé otto anni fa. E la memoria di quel giorno un po' aiuta a sopportare quanto è appena successo. «Accetto questa sentenza - è stata la prima cosa che ha detto - Mi dispiace, mi lascia dei dubbi e faremo ricorso. Ma questa sentenza la accetto». Quel giorno era il 12 novembre del 2002 e Delfo Zorzi, o Roi Hagen come si era rinominato una volta acquisita la cittadinanza giapponese, entrava per la prima volta in un'aula di tribunale. Anche se non in quella "giusta". «Ricordo benissimo - dice Manlio Milani - ricordo ogni parola che gli dissi...». All'epoca sul capo di Zorzi, che da anni viveva in Giappone dove era diventato miliardario, pendevano una condanna di primo grado all'ergastolo per la strage di piazza Fontana e un avviso di indagini per quella di Brescia. Di ottenerne l'estradizione manco a parlarne. Così, quando si seppe di quel processo giapponese, Manlio Milani salì su un aereo e andò a Tokyo. Uno strano processo. Zorzi non era imputato ma parte lesa. L'imputato era Pio D'Emilia, corrispondente del Manifesto e della Rai , che Zorzi aveva querelato per il "danno all'immagine" che le notizie sul suo tenebroso passato neonazista avevano procurato in Giappone alle sue imprese di import-export del made in Italy. Gessato blu, camicia celeste, cravatta di seta grigia, si sedette sul banco dei testimoni ed espose, in giapponese, le sue doglianze. Poi, finita l'udienza, si spostò distrattamente a ridosso dello spazio riservato al pubblico. «Dottor Zorzi - gli disse Manlio Milani - rappresento i familiari delle vittime delle stragi». In mezzo ai due c'era un vetro blindato alto due metri. Zorzi non sentì. Guardò verso la folla con aria interrogativa. «Sì, ricordo perfettamente. Dovetti ripeterlo: "dottor Zorzi, rappresento i familiari delle vittime. Mi ascolti: non le rivolgo alcuna accusa, non dico che lei è colpevole, non ho desideri di vendetta. Ma torni in Italia, accetti il processo. L'Italia è un paese serio, i giudici sono seri, difendersi è anche suo interesse». Impossibile dimenticare quell'espressione stupefatta e sgomenta. E quel tono incongruo, come di uno che un po' si vergogna: «No, no... i giudici italiani sono inaffidabili». Finì lì. Perché arrivarono i poliziotti e l'aula fu sgomberata. Facemmo appena in tempo a lanciare un ultimo sguardo. Zorzi pareva ancora turbato, come da un ricordo sgradevole e improvviso. Per Manlio Milani fu come una specie di sogno febbrile. Ventidue ore di aereo in tre giorni, su e giù in un fuso orario di otto ore. Uscendo dall'aula disse una frase incredibile: «Strano, ho risentito il rumore della bomba». È l'eco che scandisce le emozioni dei superstiti, come uno spaventoso battito del cuore: annulla il trascorrere del tempo e rende ancor più inaccettabile il fatto che, per tutto il resto, il tempo abbia agito sulla giustizia come l'acido muriatico. Tutti assolti ieri. E Zorzi, qualche anno fa, assolto in appello anche per piazza Fontana. «Se solo quei documenti dei Servizi fossero venuti fuori quando venivano prodotti e non tanti anni dopo, la sentenza sarebbe stata diversa...». Perché, spiega Milani, negli anni dopo la strage sarebbe stato possibile svolgere certi interrogatori, certe indagini... E la giustizia non avrebbe preso i tempi di un'intera vita. E non ci sarebbe stata la prescrizione della memoria: «I mezzi d'informazione - dice senza astio - hanno seguito pochissimo questo processo». E non sarebbe passato inosservato il fatto che nessuno degli uomini delle istituzioni rinviati a giudizio si sia degnato di essere presente in aula. Come se proprio loro fossero gli ultimi a credere nella giustizia. Al contrario di Manlio Milani che si è fatto giustizia da sé. Beffando Roi Hagen, il miliardario neonazista. Fino al punto da dargli, da cittadino, il consiglio giusto: della giustizia italiana poteva davvero fidarsi. Chissà, forse anche lui si ricorda quel giorno e, ogni tanto, ne rivive il turbamento e la vergogna.