L'operazione di maquillage cromatico voluta dall'Amministrazione comunale di Brescia (Pdl, Lega Nord e Udc) non ha sortito gli effetti sperati. Al sindaco della Leonessa d'Italia, l'onorevole Adriano Paroli, non è servito camuffare di rosa (il colore del Giro d'Italia, da due giorni di stanza in città) il 36esimo anniversario della strage fascista, di Stato e della Nato di piazza della Loggia. Le contestazioni alle autorità sono piovute sonore, nella maniera forse più plateale e rumorosa degli ultimi anni.
Le contestazioni alle autorità sono piovute sonore, nella maniera forse più plateale e rumorosa degli ultimi anni. La rabbia per la memoria ferita e violentata della città di Brescia, ancora oggi senza risposte giudiziarie certe su esecutori e mandanti dello scoppio che il 28 maggio 1974 uccise otto persone (Livia Bottardi, Clementina Calzari e il marito Alberto Trebeschi, Giulietta Banzi, Euplo Natali, Vittorio Zambarda, Luigi Pinto e Bartolomeo Talenti), ferendone altre cento, è esplosa al momento dell'ingresso in piazza dei circa 500 partecipanti al corteo indetto dal Kollettivo Studenti in Lotta. Fischi, slogan "contro i fascisti di ieri e di oggi" e invettive varie si sono concentrati per diversi minuti contro il presidente della Provincia, l'onorevole leghista Daniele Molgora, ed il primo cittadino Paroli, che ad un certo punto ha preferito rifugiarsi in un bar vicino. La contestazione contro i rappresentanti locali di quello Stato che, dal 1974 ad oggi, ha speso molte più energie nell'occultare che nell'accertare la verità giudiziaria ha coinvolto anche una fetta consistente delle circa tremila persone giunte in piazza Loggia per assistere alla commemorazione ufficiale, affidata quest'anno ad Antonio Foccillo (segreteria nazionale Uil) e Paolo Bolognesi (presidente dell'associazione Vittime della strage di Bologna). Altri, invece, contrari all'iniziativa, hanno iniziato a discutere con i contestatori, dando vita a capannelli piuttosto animati. Manlio Milani, presidente dell'Associazione vittime dei familiari che con le istituzioni cittadine anima la "Casa della Memoria", c'è andato giù duro: "non voglio dare importanza ad un gruppetto che si colloca al di fuori dalla storia". La realtà dei fatti non sembra però essere così chiara da essere liquidata in una battuta. Oggi Brescia, aldilà di quanto raccontano i notabili locali bardati di rosa per l'occasione, è una città tutt'altro che pacificata: l'occupazione langue, gli sfratti aumentano, la scuola pubblica arranca sotto la scure dei tagli. La tensione sociale, presente nella vita di tutti i giorni, ha trovato ieri un (ennesimo) punto di caduta incistandosi nella ferita aperta ormai da quasi quattro decenni fra la popolazione che non dimentica: la bomba fascista, i depistaggi evidenti, le coperture, il dolore, la lentezza dei processi. L'ultimo, il terzo, è ancora in corso presso la Corte d'Assise di Brescia. Alla vigilia dell'anniversario della strage si è tenuta la 130esima udienza. Alla sbarra è arrivato Maurizio Tramonte, imputato assieme a Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Francesco Delfino e Pino Rauti. La parabola del 58enne padovano è lo specchio di quel coacervo di rapporti e relazioni fra Stato ed eversione nera che tanta parte ha avuto nelle stragi: estremista di destra a libro paga dei Servizi con il nome di "fonte Tritone", Tramonte è stato in questi anni prima infiltrato, poi superteste ed infine imputato. Durante il suo interrogatorio di giovedì, il "camerata" ha messo in scena la tragicommedia di sempre: ammissioni - quasi tutte de relato ed attribuite a neofascisti ormai morti da anni e quindi impossibilitati a confermare o smentire le sue dichiarazioni -, ritrattazioni e una valanga di omissioni. La deposizione è stata caratterizzata da molti "non ricordo", in particolare quando Tramonte è stato chiamato a confermare il contenuto delle veline che nel corso degli anni Settanta inviava puntualmente al Sid. Solo su una cosa la "fonte Tritone" si è mostrata sicura: la paternità della strage. Anche qui, però, le sue parole sono disarmanti per chi ancora si affanna a pretendere un barlume di verità dalle aule giudiziarie. Alla domanda postagli dal presidente della Corte d'assise Enrico Fischetti su chi, secondo lui, avesse messo la bomba nel portarifiuti che causò la strage, Tramonte ha risposto: "Penso, oggi come allora, che siano stati i Gap (Gruppi di azione partigiana), fondati qualche anno prima da Feltrinelli". L'ennesima provocazione, l'ennesima pietra gettata per intorbidire lo stagno di quel che resta della verità giudiziaria. La memoria, e la storia, sono un'altra cosa.