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intervista a Manlio Milani
«Senza conti col passato la nostra è una democrazia è sotto ricatto»
Checchino Antonini
Fonte: Liberazione, 28 maggio 2009
28 maggio 2009

«Senza conti col passato, questa democrazia resterà costatemente sottoposta a ricatti». Per la trentacinquesima volta Manlio Milani vede accendersi i riflettori attorno a sé. Ogni 28 maggio, dal 1974. In Piazza della Loggia fece a tempo a sorridere per l'ultima volta a sua moglie Livia prima di perderla di vista tra la folla. Prima del boato che seminò morte e disperazione anche nel «piccolo mondo gramsciano», il Circolo Banfi, gruppo culturale di operai e insegnanti, di cui Livia e Manlio erano parte. Il sistema dell'informazione amplifica l'illusione leopardiana per cui negli anniversari, le persone e i fatti «tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra». I conti col passato Milani tenta di farli da allora.

Metà della sua vita l'ha spesa da presidente dell'Associazione dei caduti di piazza della Loggia. Una volta ha detto che il nostro è il Paese delle associazioni delle vittime.

Le associazioni nascono anche dall'esigenza di incontrarci, di ascoltarci, di esprimerci liberamente, sapendo di essere capiti. Nello stesso tempo, le associazioni nascono come un passaggio fondamentale per coinvolgere l'intera società, al di là della dimensione privata del dolore. E' indubbio, però, che nascano soprattutto per una mancanza di Stato. Intendo indicare quelle forze che hanno agito per depistare, per occultare. L'impunità degli autori di quasi tutte le stragi non è una casualità, è un prodotto della storia. In particolare in una strage come quella di Brescia che non è solo servita a spandere terrore per creare le condizioni di una domanda di ordine - come a Piazza Fontana o alla Stazione di Bologna - ma è l'unica di quelle stragi ad essere mirata. E' stato un attacco diretto ed esplicito alle istituzioni, al sindacato, ai partiti.

Che città era Brescia?

Una città operaia, profondamente cattolica, ben governata. Brescia per la dc, era quello che Bologna era per il Pci. Era, a differenza di oggi, la città del dialogo, dove una parte del mondo cattolico si schierò per il No al referendum sul divorzio e videro la luce le prime giunte aperte. Fu una sorta di laboratorio. E in provincia c'erano aree di grande produttività e grande arretratezza, uno sfruttamento della manodopera molto alto e, di contro, punte di unità estremamente elevata tra le organizzazioni sindacali. Gli attentati fascisti, che precedettero la strage, volevano colpire tutto ciò. Alcuni padroni avevano assunto persone raccomandate dalla Cisnal per inquinare l'ambiente in fabbrica. Quelle persone le ritroveremo tra gli indagati per terrorismo o sul banco degli imputati per la strage. Come Giovanni Maifredi che fu assunto alla Idra, una azienda metalmeccanica.

Questo anniversario ricorre mentre è in corso il terzo processo, frutto della quinta istruttoria.

Sentiamo il peso del tempo ma è un processo che conferma dati e contesti. Già i primi mesi di dibattimento (è iniziato a novembre) confermano che le forze di estrema destra erano ben armate, collegate con uomini dello Stato, e godevano di profonde coperture. Il rinvio a giudizio sono la dimostrazione concreta dei rapporti tra la manodopera dell'ordinovismo veneto - Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi - i servizi segreti (Maurizio Tramonte, la "fonte Tritone"; Giovanni Maifredi, infltrato nella destra), il capitano dei carabinieri Francesco Delfino che condurrà le prime indagini facendole finire nel nulla (poi, da generale sarà condannato per il rapimento dell'imprenditore Soffiantini) e 34 anni dopo finirà accusato di concorso in strage. Infine il leader di Ordine Nuovo, Pino Rauti che, alla vigilia della strage, rientrò nel Msi. Le testimonianze mantengono le reticenze di sempre. Capita spesso di tornare con la memoria alle parole di un magistrato di Padova, Tamburino, a cui fu sfilata l'inchiesta su quel servizio segreto parallelo noto come Rosa dei venti. Secondo lui molte di quelle stragi si sarebbero potute evitare.

Quarant'anni dopo, grazie al presidente Napolitano, si sono potute incontrare le vedove di Pinelli e Calabresi. Come avete osservato quell'evento?

E' stato un fatto straordinario, un gesto molto importante che evidenzia le responsabilità di uomini dello Stato nella strage di Piazza Fontana. Ora il Paese deve fare i conti con quel gesto anche se c'è il rischio che cada nel vuoto, che si creda che l'abbraccio tra le vedove risolva tutto. Invece bisogna che la memoria inquieta venga finalmente portata alla luce.