«La memoria va bene, ma non basta. Vorrei dei responsabili accertati, con nomi e cognomi, per chiedere conto dei tanti morti e feriti innocenti, colpiti a caso per rafforzare o indebolire un "quadro politico". Ma non so a chi rivolgermi». Non aiutano nemmeno le parole del presidente della Repubblica sul «peso» delle stragi rimaste senza colpevoli? «Certo che aiutano, perché danno più forza alle nostre richieste. Ma sono un po' stanco di riti e discorsi sui macro-sistemi, sui "contesti complessivi", sulle verità storiche acquisite. Vorrei che emergesse qualcosa di concreto sui singoli fatti, a cominciare dai depistaggi che hanno impedito di arrivare alla verità giudiziaria quando si era ancora in tempo, denunciati proprio dal capo dello Stato».
Trentacinque anni fa Michele Bontempi era un bambino piccolissimo, e la sera del 27 maggio 1974, nella casa di Brescia in cui s'era appena addormentato, i suoi genitori s'incontrarono con un gruppo di amici, quasi tutti professori. Discussero della manifestazione antifascista convocata per l'indomani in piazza della Loggia, alla quale avrebbero partecipato. La manifestazione della strage. Il 28 maggio alcune di quelle persone morirono per lo scoppio della bomba: Livia Bottardi, Giorgio e Clementina Trebeschi. Pietro Bontempi, il padre di Michele, rimase ferito; l'altro bambino presente in casa Bontempi la sera prima, Giorgio Trebeschi, restò orfano di entrambi i genitori. Oggi Michele Bontempi è un uomo di 36 anni, affermato avvocato penalista dello studio legale Frigo, e assiste le parti civili nell'ennesimo processo per la strage di Brescia che s'è aperto a novembre; insieme agli altri componenti del collegio di difesa rappresenta suo padre e le altre vittime dell'eccidio. L'impegno di chi all'epoca era un bambino di appena un anno nei rivoli giudiziari ancora pendenti, intento a cercare qualche brandello di verità tra migliaia di atti processuali in bianco e nero, è il segno tangibile del tempo trascorso invano da quella strage. E dell'ingiustizia subita da chi vi rimase coinvolto.
«Ma in questo caso - dice l'avvocato Bontempi - non abbiamo a che fare col solito problema dei tempi lunghi della giustizia. Se siamo a questo punto, è perché nelle precedenti cinque istruttorie e otto processi (tutti conclusi con proscioglimenti o assoluzioni per insufficienza di prove, ndr) c'è sempre stato qualcosa o qualcuno che ha impedito di arrivare a conclusioni diverse». Uno dei tanti magistrati avvicendatisi nelle indagini, il giudice istruttore Giampaolo Zorzi, ha scritto di essersi trovato davanti a un «meccanismo che fa letteralmente venire i brividi, soprattutto di rabbia, in quanto si propone quale riprova, se mai ve ne fosse bisogno, dell'esistenza e costante operatività di una rete di protezione pronta a scattare in qualunque momento e in qualunque luogo». Commenta l'avvocato: «È un passaggio agghiacciante, soprattutto se si pensa che quel meccanismo è stato probabilmente attivato all'interno delle stesse istituzioni che dovevano collaborare all'accertamento della verità».
Il processo appena cominciato, che con circa 2.000 testimoni durerà almeno un paio d'anni, vede alla sbarra sei imputati «residuali» e nelle indagini sono stati ipotizzati ulteriori depistaggi. «Questo è quasi certamente l'ultimo processo per le stragi rimaste impunite - spiega Bontempi -, dove noi abbiamo il ruolo di sentinelle per controllare che la ricerca delle responsabilità individuali non sia ancora una volta vanificata dal meccanismo che fino ad ora l'ha ostacolata». Sfilano testimoni di ogni genere, davanti alla corte d'assise. Compresi quelli che dicono di non ricordare dove e quando parteciparono a campi d'addestramento paramilitare; o come e perché alcune informazioni sul possibile ruolo dell'estrema destra veneta, raccolte nell'immediatezza dei fatti, si arenarono senza alcun approfondimento. L'avvocato Bontempi, cresciuto fra gli echi e le rievocazioni della bomba di piazza della Loggia, ascolta e prende nota. A volte incredulo o scoraggiato, a volte fiducioso. Suo padre, che si salvò perché protetto dai corpi dei suoi amici morti, è dovuto venire a deporre per l'ennesima volta sui fatti di quel giorno. «È un po' grottesco - commenta il figlio Michele - che dopo tanto tempo si chieda alle vittime di continuare a ricordare i minimi dettagli. Ormai mio papà ha maturato un atteggiamento quasi di distacco; forse è un modo per proteggersi e per proteggere noi come ha sempre fatto, anche quando ero bambino. In casa non ha mai parlato volentieri della strage, le cose che ho saputo nel corso degli anni me le ha raccontate mia madre. E ancora oggi, attraverso il materiale del processo, vengo a conoscenza di particolari che mi avevano taciuto. Mia nonna invece, che ha 90 anni e ha seguito con attenzione tutto il primo processo, mi chiede sempre di tenerla aggiornata sugli ultimi sviluppi».
Per adesso, di rilevanti non ce ne sono. «Però - insiste l'avvocato - confidiamo che un testimone o un protagonista delle cupe vicende di quegli anni, e di sicuro ne sfileranno alcuni che sanno, si decida a dire la verità, non avendo magari più nulla da temere sul piano giudiziario. Per me questo non è un processo come gli altri, è ovvio, coinvolge la mia famiglia e i miei cari. Mio padre è vivo per caso, al mio amico d'infanzia Giorgio Trebeschi gli stragisti hanno cambiato la vita, così come a tutti i familiari delle persone uccise. Vorrei trovare qualcuno a cui rivolgere la domanda di fondo: chi e che cosa vi ha fatto credere di essere legittimati, per raggiungere degli obiettivi politici, qualunque essi fossero, a spezzare la vita di chi nulla aveva a che fare con i vostri disegni e strategie? In trentacinque anni non ci siamo riusciti, questa è l'ultima possibilità rimasta».