Dieci e dodici. E' a quell'ora del 28 maggio che il ricordo suscita più angoscia. Succede a migliaia di bresciani dal '74. Come Dino Greco, alla guida per anni della Camera del lavoro di quella città, ora nel direttivo nazionale della Cgil. «Bisogna parlarne ancora», conviene il sindacalista, dopo il rinvio a giudizio. per strage, di Rauti, il suocero di Alemanno, assieme a Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Francesco Delfino e Giovanni Maifredi. Il processo inizierà il 25 novembre.
Nel '74 Dino Greco aveva 22 anni. Veniva dal movimento studentesco, messi gli studi di filosofia in stand-by, lavorò tra gli edili, poi coi tessili. «Rimuovere ancora sarebbe un problema perché la strategia della tensione, lo stragismo fascista è servito a «impedire che la straordinaria stagione di conquiste del lavoro si trasformasse in un fatto politico irreversibile». Piazza della Loggia è emblematica più di altre stragi che l'hanno preceduta e seguita. «Prima e dopo furono colpiti luoghi neutri: banche, treni,stazioni». A Brescia, quel giorno, c'era una manifestazione antifascista convocata con uno sciopero generale provinciale contro lo stillicidio di attentati a sedi del sindacato e della sinistra e singoli: non morì nessuno tranne un fascista, Silvio Ferrari, che portava un ordigno sul motorino. Non si seppe mai se fu un incidente o un regolamento di conti tra fascisti. «Ma gli attentati si sa, quelli erano la risposta tracotante del padronato alle conquiste». La prima il contratto dei metalmeccanici del '69, «il più importante del dopoguerra», ricorda Greco: aboliva le gabbie salariali, portava l'orario a 40 ore, strappava il diritto allo studio, le 150 ore, per i lavoratori vittime dell'esclusione di censo dall'istruzione. Sanciva, quel contratto, il diritto di organizzazione nei luoghi di lavoro. «La Costituzione, per vent'anni bandita dalle fabbriche, finalmente ci entrava. Intanto, la forza dei lavoratori si riversava fuori dai cancelli, conquistava settori intellettuali, ceti medi. I lavoratori erano protagonisti e ne avevano piena consapevolezza». Ecco perché la reazione brutale dei siderurgici bresciani, immortalati da un documentario del bresciano Silvano Agosti mentre si lamentavano di quello che pareva loro un esproprio. «Bisogna fermarli - dicevano aggiungendo - a qualsiasi costo». «Era il marcio di Salò che tornava a galla - ripete Dino Greco - proprio mentre la vittoria del No al referendum sul divorzio, solo un paio di settimane prima, confermava il riverbero su tutta la società delle conquiste dei lavoratori».
Greco cita lo storico torinese Giovanni De Luna a proposito della «latente tentazione antidemocratica della borghesia italiana che spesso torna a galla».
Quel maggio l'aria di Brescia s'era fatta più pesante. I fascisti non erano radicati nel territorio. Erano gruppi legati al Mar di Fumagalli, alla rivista evoliana "Riscossa", godevano del supporto finanziario del padronato. «La mattina del 28 maggio doveva parlare Franco Casprezzati, segretario della Flm proveniente dalla Cisl, a nome delle confederazioni. Un altro dirigente Fiom appena arrivato era Claudio Sabattini». La bomba, nascosta in un cestino sotto il porticato, scoppia mentre Castrezzati «riferisce dell'inconcepibilità del fascismo in doppiopetto come si mostrava il Msi in Parlamento». Greco ricorda lo scoppio sordo, la colonna di fumo, centinaia di persone a terra, cento ferito e 8 morti. «Tutti della Cgil: il gruppo del sindacato della scuola, due operai e un pensionato. Ho capito, come tutti, che era successo qualcosa di enorme, lo smarrimento durò un attimo: la folla si ricompatta sotto il palco, fu cacciato il furgone della polizia, ci si riunisce in piazza della Vittoria e ci si dà appuntamento in Camera del lavoro che, da quel momento, fu punto di riferimento per tutti». I lavoratori decisero l'occupazione di tutte le grandi fabbriche dove si svolsero assemblee permanenti in cui confluirono per discutere dell' attacco frontale anche i lavoratori delle piccole fabbriche. «Dalla piazza alle fabbriche e ritorno in piazza. Diecimila delegati si divisero la città in quadranti e la presidiarono. Non c'era più un'autorità riconosciuta se non i consigli di fabbrica. Una situzione prerivoluzionaria - quella descritta da Dino Greco - come mai dalle fasi della Liberazione: la classe operaia che incarna un nuovo concetto di legalità. La risposta della città fu l'esatto opposto di quello che si aspettavano gli attentatori. Fino ai funerali la città sarà in mano agli operai organizzati che gestiscono non solo la piazza ma accolgono i poteri istituzionali. Leone e Rumor accolti da bordate di fischi. Potrà parlare solo Lama. Lo striscione è inequivocabile: "Noi sappiamo chi è Stato"».
La strage, insomma, ha avuto un «valore costituente: negli anni successivi questo ruolo dei consigli permeerà la storia della città».
Ma già dalle prime battute, le indagini provano a restituire una «visione riduttiva» di quella carneficina. «Quella strategia è passata - conclude Greco - ci fu una resistenza straordinaria però nel lungo processo, e non lo si può addebitare soltanto allo stragismo, non c'è dubbio che il movimento operaio, non solo nel nostro Paese, è stato travolto»