Uno dei settori maggiormente martoriati dagli infortuni e dalle morti sul lavoro è indubbiamente quello agricolo. Costituito soprattutto da microimprese, con altissime percentuali di lavoro nero e irregolare, è un sistema che per la sua frammentarietà resta spesso oscuro alle cronache nazionali, a meno che non accadano incidenti rilevanti come quello alla Umbria Oli, a fine 2006, e il caso dei due giovani stritolati qualche giorno fa in un silos del mantovano. Eppure i dati sono preoccupanti, stando almeno agli ultimi disponibili, quelli Inail del 2005: 66.286 gli infortuni registrati, 127 i morti (e non si conteggiano tutti quegli incidenti mai denunciati). A Franco Chiriaco, segretario generale della Flai Cgil, categoria dell'agroindustria, abbiamo chiesto cosa possa fare il sindacato, il mondo delle imprese, il governo per porre fine a questa vera e propria «mattanza».
Come mai, nonostante gli appelli e le pagine di stampa, continuano a verificarsi fatti terribili come quelli di Mantova?
Nel paese continua a essere vincente la cultura dell'impunità: le imprese sanno che non pagheranno, e il problema non se lo pongono neppure quando contrattiamo. Non c'è il minimo di autocritica: eppure, quando non formano adeguatamente i lavoratori e non li dotano degli strumenti di prevenzione, si fanno compartecipi di veri e propri «assassini», salvo poi derubricare gli infortuni a «coincidenze». E allora, come il governo ha agito sul caporalato, parificandolo di fatto al reato di schiavismo, bisogna agire sulla responsabilità: le imprese non sono responsabili solo dopo il fatto avvenuto, ma ancor prima - penalmente - dovrebbero rispondere della mancata prevenzione.
Anche il sindacato può avere delle responsabilità, autocritiche da farsi?
Certo, ma teniamo conto che il sindacato, soprattutto in un settore frammentato come quello agricolo, in molte realtà non c'è o non può arrivarci. Per questo motivo bisogna innanzitutto rafforzare sul piano normativo e dei controlli le strutture di prevenzione, a partire dalle Asl, che allo stato attuale praticamente non fanno ispezioni. Quanto al sindacato, si deve integrare meglio il ruolo dei rappresentanti per la sicurezza, gli Rls, con quello delle Rsu, facendo in modo che lavorino sempre insieme e su obiettivi in sintonia. E' fondamentale la formazione, che noi stessi dovremmo fare: con la Metes, la fondazione della Flai, stiamo investendo ingenti risorse per formare i delegati. Faccio un esempio che parla da solo: in uno zuccherificio di Modena, qualche tempo fa, un Rls ha preso la parola a un'assemblea. Ha spiegato che un suo collega gli è morto tra le braccia, stritolato da un macchinario, e che lui non sapeva letteralmente come muoversi.
Al governo cosa chiederete?
Interventi forti per responsabilizzare il mondo delle imprese, innanzitutto. Perché dopo la legge 626 e negli anni di Berlusconi, in realtà si è fatto di tutto per deresponsabilizzare i datori di lavoro. Un dovere non solo verso i lavoratori: chi risponde alla cittadinanza umbra dei danni fatti al territorio dopo l'incendio dell'industria di oli? Le imprese non vogliono più render conto di nulla: ad esempio mi è arrivata una lettera, indirizzata anche ai ministri del lavoro e dell'agricoltura, dove la Unico, associazione dei commercianti ortofrutticoli, afferma che non intende sottoscrivere gli istituti contrattuali e retributivi previsti dagli integrativi. E poi i controlli, come ho detto: le Asl sono praticamente bloccate nonostante tocchi a loro svolgere la delicata opera di prevenzione e le ispezioni.
Il problema della sicurezza è legato anche alla precarietà. Come giudicate il governo e il suo approccio alla legge 30?
Nel governo, per fortuna, sono rappresentate con autenticità parti di sinistra oltre a quelle di centro, e alcune nostre richieste sono già state recepite. Penso a strumenti importanti contro il lavoro nero, come il documento unico di regolarità, la registrazione del lavoratore il giorno prima, o gli uffici pubblici di collocamento, che da soli cancellano il pezzo della legge 30 sugli enti bilaterali. Su un milione di addetti agricoli, sono almeno 300 mila quelli sommersi o irregolari in varie forme. E allora dico che il governo deve agire urgentemente sulla legge 30, ma l'emergenza non è solo quella del terziario o degli impiegati - come i call center o i giornalisti - che vedono la precarietà soprattutto nel rapporto di lavoro. C'è da guardare agli operai, ai braccianti, forse i primi dipendenti nella storia dell'umanità, che non sono spariti e che anzi vivono oggi condizioni di precarietà ancora peggiore: ritmi e carichi insostenibili, dormono ammassati nelle stalle con gli animali, lavorano molti minori. La sinistra deve riprendere attenzione anche rispetto a loro, e ai nuovi migranti.Tornando alla legge 30, segnalo che la contrattazione può fare molto, a volte anche meglio di un intervento normativo: nel contratto che abbiamo firmato nel 2003, unica categoria in Italia, abbiamo introdotto un limite massimo di 48 ore settimanali, effettive e non considerate come media, straordinari inclusi. Come dire: per fare anche un'ora in più le imprese sono obbligate ad assumere.
C'è un altro tema che la Cgil è chiamata ad affrontare. L'attacco al contratto nazionale e la flessibilità degli orari: per aumentare la «produttività» gli imprenditori chiedono di scavalcare le Rsu sugli orari.
Per quanto mi riguarda non ci sono margini di trattativa. E' assurdo pensare che un tavolo nazionale possa decidere gli orari che si faranno in una qualsiasi azienda italiana: devono decidere le Rsu. Quanto al contratto, dico che se per ipotesi ci obbligassero a perdere uno dei due livelli, io rinuncerei all'aziendale: senza il nazionale, in un settore dove l'88% delle imprese è di piccole dimensioni, noi non riusciremmo a tutelare l'insieme dei lavoratori, e si cancellerebbe l'idea stessa di sindacato. La partecipazione e il coinvolgimento sono centrali, concludo con un esempio: alla Nestlè di Perugia, dopo una settimana di assemblee, ha votato alle elezioni delle Rsu il 99% dei lavoratori, e il 64% ha scelto la Cgil.