La pena comminata a chi viene riconosciuto colpevole di un reato in base al codice è intesa svolgere funzioni sociali di grande importanza. Punire in misura adeguata l'autore del reato; esercitare una forte misura di dissuasione nei confronti di chiunque fosse tentato di commettere azioni analoghe; mostrare a chi da quel reato ha ricevuto danno che giustizia è stata fatta. Nel caso Thyssen, in che misura tali funzioni paiono essere state assolte dalla sentenza di appello?
Da un punto di vista strettamente giuridico, è evidente che per dare una risposta bisogna attendere le motivazioni della sentenza. E soltanto un giurista potrà farlo in forma appropriata. Tuttavia nel caso Thyssen vi sono migliaia di persone che cercano subito una risposta, a cominciare dai parenti delle vittime, e dal modo in cui la formulano dipendono sia il tasso di fiducia che ripongono nella magistratura, sia i comportamenti che terranno nelle materie toccate dalla sentenza.
Il pm Raffaele Guariniello sostiene che, seppure con una notevole riduzione di pena rispetto al primo grado di giudizio, la sentenza risulta di una durezza quale di rado si è vista in Italia, ed è difficile non convenire con lui su questo punto. Innumerevoli incidenti sul lavoro, nel passato, hanno dato origine a sentenze sostanzialmente più miti dell'appello di Torino.
D'ora innanzi sarà questa sentenza a fare giurisprudenza. Per cui, può dirsi che con la seconda sentenza di Torino rispetto alla prassi vigente un tangibile progresso è comunque stato compiuto nella difesa della salute sui luoghi di lavoro. La questione sembra tuttavia presentarsi in una luce un po' diversa se si guarda, da un lato, alla percezione della sentenza che possono aver avuto i familiari delle vittime e i loro compagni, che stanno in tutta Italia e non solo a Torino; e, da un altro lato, alla sua efficacia dissuasiva nei confronti di dirigenti d'azienda e imprenditori.
È chiaro che non spetta a chi ha subito un danno valutare e men che mai determinare l'entità della pena da infliggere al colpevole. Ma coloro che avevano accolto con soddisfazione la pesante sentenza di primo grado, sorretta da un formidabile impianto delle motivazioni - 508 pagine di inusitata levatura tecnica, oltre che giuridica - non possono non essere negativamente colpiti dalla riduzione delle pene principali di oltre un terzo per tutti i principali imputati, a partire dall'ad Herald Espenhahn. Né possono a meno di chiedersi quali novità siano intervenute nel frattempo per giustificare una simile riduzione.
In realtà non sembra esservi stata alcuna dirimente scoperta investigativa. Né la riduzione della pena appare dovuta a circostanze attenuanti o altre causali prima non applicate: la si deve soltanto alla derubricazione del reato da omicidio volontario a omicidio colposo. In primo grado la Corte aveva applicato l'art. 575 del c.p., il quale recita seccamente "Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore a tot anni". La sentenza d'appello si riferisce invece a chi "cagiona per colpa la morte di una persona" e prevede pene che partono da pochi mesi di reclusione. Sotto questo aspetto, c'è quasi da stupirsi che le pene comminate agli imputati siano rimaste così elevate, sia per l'ad che per gli altri dirigenti.
Ma qui entra in scena la funzione dissuasiva della pena, che la sentenza d'appello - è giocoforza concludere - appare avere sostanzialmente mitigato. Un conto è temere di venire accusati di aver cagionato la morte di un uomo. È un'accusa terribile. Assai meno pesante è l'accusa di avere concorso a cagionare una morte per colpa, ossia per un atto qualsiasi di omissione o violazione di norme. È la derubricazione della motivazione dell'accusa nell'appello del caso Thyssen, più ancora che l'alleggerimento delle pene, che induce a riflettere sulle conseguenze che essa potrebbe avere nel comportamento quotidiano di chi, a qualunque titolo, è responsabile della sicurezza sui luoghi di lavoro.