Diverso tempo fa, viaggiando per l'Italia presentando il mio libro Lager italiani - storie di migranti reclusi nei CPT - e raccogliendo nuove storie sul lavoro dei migranti irregolari, ho incontrato alcuni casi di "morti bianche" (per usare l'espressione consueta, che si tratta invece di demolire). "Morti bianche" di migranti clandestini: morti dunque bianchissime, di fatto inesistenti. Morti di persone essenziali alla produzione ma che scompaiono perfino nella memoria. Mi sono chiesto quando quelle morti clandestine avessero a che fare con quelle di "cittadini" che invece i loro diritti li hanno. Ed è nata l'idea di Lavorare uccide. Dove racconto il mio viaggio in Italia per comprendere il come e il perché delle morti sul lavoro. E raccontare questo significa far risuonare in chi legge l'esistenza reale di quelle vite bruciate e cancellate, e delle persone che ho incontrato, e dei luoghi che ho attraversato.
Per chi lavora con la parola, il viaggio dovrebbe cominciare, intanto, dal comprendere che l'espressione "morti bianche" è un'espressione profondamente ideologica. Essendo le morti bianche, tradizionalmente, le morti in culla di neonati, per le quali nessuno era responsabile, tragiche fatalità. Laddove invece la responsabilità, nel caso delle morti da lavoro, c'è sempre, ed è individuabile. Del resto, basta grattare il palinsesto e si trova che l'espressione originale era ben diversa: "omicidi bianchi".
Nel libro racconto storie, ma prima ancora "geografie". Non si trattava insomma di raccontare la vita spezzata di chi muore, quanto di raccontare l'evento della morte - di cui occorre "render conto". Leggere ogni evento come un nodo di cui occorre conoscere tutti i singoli fili che ne vanno a costituire la forma, fino a trovarne la differenza specifica. E in ogni evento, dei ritornelli. I "motivi" che sono il perché delle morti da lavoro. Ed è di questi motivi che occorre divenire consapevoli. Del fatto che le morti sul lavoro sono sempre "sovradeterminate" da cause interne al modello di sviluppo del nostro paese: la frammentazione del processo produttivo e dell'organizzazione del lavoro, la catena infinita di appalti e subappalti, la condizione precaria dei lavoratori e la loro conseguente ricattabilità, l'abbassamento del costo del lavoro, la preminenza abnorme della cosiddetta "microimpresa" nel tessuto produttivo italiano.
Ma allora come contrastare questa piaga, se non è un fatto contingente ma una piaga implicata dalla struttura stessa dell'economia? E' necessario un cambiamento culturale - ma nel senso più ampio del termine "cultura". Dove "cultura" è tutto l'insieme di pratiche materiali che formano l'umano, a partire dal suo essere uomo produttore. Cambiamento culturale, allora, significa prendere coscienza di quelli che sono i meccanismi di un intero sistema sociale ed economico che produce, e io credo non possa non produrre, le sue vittime sacrificali. Si tratta di produrre parole invece, di articolare discorsi che facciano senso di eventi che potrebbero apparire casuali. Non stancarsi di parlare di morti sul lavoro, e non come vuota ritualità, come enumerazione di tragiche fatalità: questo, quanto ai mass media, significa mantenere alta l'attenzione sulla vicenda, impegnarsi a dar conto come vanno avanti i procedimenti giudiziari. Non dimenticarsi delle morti il giorno dopo, lasciando nel vago ogni responsabilità. Fare di ogni morte sul lavoro quel che, per una serie forse casuale di eventi, il sistema mediatico ha fatto (e in alcuni casi ha dovuto fare) per la ThyssenKrupp.
Oggi, un esponente del nuovo governo - che del resto riflette una fase nuova nella storia di questo paese - chiede di rimettere in discussione il Testo Unico sulla sicurezza, una delle leggi positive del precedente governo, che pure aveva già subito qualche ridimensionamento voluto dalla Confindustria. Io, a questo, non posso che reagire continuando a raccontare storie, e mondi.