«Non tutti denunciano l'infortunio anche se ne avrebbero diritto, molti sono spaventati, pensano di perdere il lavoro, di subire ritorsioni. Molti sono interinali, a chiamata: temono di scivolare indietro nella graduatoria. Altri sono in nero, oppure a partita iva. Circa 600 infortuni ogni settimana solo in questo pronto soccorso, a volte di più». Il giovane medico specializzando assegnato a un grande ospedale genovese chiede l'anonimato per parlare: «Non si sa mai». Quella che descrive sembra la vita di un medico in un ospedale di un'area di conflitto. Non è molto lontano dalla realtà: perché quellA degli infortuni sul lavoro è una guerra. Con cifre da capogiro. Prendiamo il dato del 2007 al 9 agosto: 635.842 infortuni denunciati, con conseguenze invalidanti per 15.896 persone e 635 morti.
Una media di 3 morti al giorno. Una media costante negli anni, con un aumento a partire dal 2006 che si conferma inevitabilmente anche oggi. Questo per quanto riguarda i decessi. Mentre dai dati sugli infortuni sembra esservi una flessione. Secondo le statistiche ufficiali il numero di infortuni in generale diminuisce mentre quello dei morti e degli invalidi cresce. Tendenza evidente a partire proprio dal 2006. La domanda è inevitabile: come è possibile che aumentino i morti con un calo degli infortuni? L'ipotesi più verosimile è che non vengano registrati e denunciati tutti quelli che avvengono e che perciò non rientrino nelle statistiche ufficiali.
Per capire quello che sta succedendo in questi ultimi cinque o sei anni, è necessario confrontare le statistiche infortunistiche e i modelli contrattuali e i processi lavorativi. All'interno del quadro della precarizzazione, frammentazione e dell'applicazione di forme di mobilità estremizzate è proprio l'insieme del modo di lavoro e dell'organizzazione dello stesso, nei luoghi dove questi si svolge, che provoca queste tendenze. Facciamo un esempio. Nella cantieristica navale, negli impianti della Fimcantieri di Genova, possono operare contemporaneamente fino a 200 tipi di contratti su una stessa nave in costruzione.
Duecento contratti che si traducono in decine di aziende medie e piccole e piccolissime dimensioni con una concezione della sicurezza, un patrimonio di formazione e conoscenza, come minimo non omogenea se non del tutto assente. E sempre nella stessa città, nel porto commerciale (i porti sono considerati uno dei luoghi più sensibili per quanto riguarda incidenti gravi invalidanti oppure mortali) in un'unica azienda, la ex Compagnia portuale, una ricerca dell'Università Bocconi parlava di una media di settecento infortuni su circa mille lavoratori all'anno. Non stiamo parlando di cantieri edilizi abusivi o semi abusivi della provincia di Salerno, stiamo parlando di una città del nord industriale del Paese, con una profonda cultura della sicurezza e una radicata sindacalizzazione.
«Il porto di Genova è uno dei pochi, se non l'unico nel nostro Paese, in cui è stato applicato l'articolo 7 della legge 272 con l'istituzione del Comitato di igiene e sicurezza - racconta Giuseppe Canepa, responsabile area sicurezza dell'Autorità Portuale di Genova e presidente proprio del Comitato -. In questo comitato siedono tutti: il sindacato, le aziende, la Asl, proprio per intervenire nei due settori principali in cui è suddivisa la realtà del porto, quelli del ramo industriale e quindi delle costruzioni navali e quello commerciale. Ma non basta. L'Autorità ha solo 17 ispettori per controllare 22 chilometri di porto. In pratica per turno operano solo 2 ispettori in tutta l'area e si tratta di un numero evidentemente basso. La capacità di verifica dovrebbe essere molto maggiore». E Canepa è ancora più chiaro quando si affronta l'argomento delle privatizzazioni all'italiana, facendo l'esempio delle Fs che, con l'avvento della privatizzazione, non hanno certo aumentato la loro capacità di garantire più sicurezza e rigore sia a favore dei lavoratori che degli utenti.
È proprio dalla distribuzione geografica degli incidenti più gravi, e in particolari di quelli mortali, da cui emerge che qualcosa non stia funzionando all'interno dei modelli di produzione industriale nel nostro Paese: secondo i dati relativi al 2006 forniti dall'Inail, più del 50 per cento delle morti bianche avvengono nel nord del Paese (29,3 per cento nord ovest, 22,7 per cento nord est), poi segue il centro con il 19 per cento, il sud e le isole complessivamente raggiungono il 28,7 per cento. È quel 52 per cento del nord che dovrebbe preoccuparci. È lì dove risiede il cuore industriale (grande e medio) del Paese; è lì dove avvengono più morti. Quindi, di conseguenza, è ipotizzabile che i livelli di sicurezza nel cuore dell'industria italiana non siano abbastanza efficaci e adeguati.
Poche settimane fa, a Terni, quattromila lavoratori della Thyssen Krupp Acciai speciali Terni, delle controllate Titania, Società delle fucine, Tubificio, Aspasiel e Centro finitura e di tutte le aziende che lavorano all'interno dello stesso gruppo siderurgico, hanno incrociato le braccia fermando il lavoro dopo l'incidente che è costato la vita ad un operaio di 51 anni, Mauro Zannori, travolto da una lastra di metallo. Lo sciopero è scattato anche perché si trattava dell'ottavo morto in meno di dieci anni nello stesso impianto. E stiamo parlando della Krupp Acciai, considerato impianto modernissimo, di "eccellenza", ad alta produttività e sicurezza. Che le cose, al di là dei proclami e dei comunicati degli uffici relazioni pubbliche dell'impresa, siano ben differenti, traspare perfino dall'orazione del vescovo di Terni durante i funerali di Zannori: «Il luogo di lavoro non può essere trasformato in una fabbrica di morti, di vedove e di orfani. Se abbiamo una catena ininterrotta di vittime, tutto ciò non avviene per caso: è il frutto di una cultura di morte che continua a sacrificare vittime sull'altare del profitto e del guadagno a qualsiasi costo anche a scapito della vita umana».
Anche il sindacato ha difficoltà, in questi anni, a trovare un punto di sintesi per affrontare la questione della sicurezza. La frammentazione del lavoro, la moltiplicazione dei soggetti imprenditoriali e dei subappalti concentrati in un unico impianto non consentono alle organizzazioni di rappresentanza una vigilanza efficace su tutto l'ambito lavorativo.
Per i sindacati metalmeccanici di Terni «è necessario attivare in modo efficace tutti i livelli ispettivi e di controllo da parte degli enti e soggetti che hanno il compito di contribuire a fermare questa impressionante catena di infortuni e incidenti mortali sul lavoro, allo scopo di garantire la tutela della salute e l'incolumità fisica delle persone». Livelli ispettivi e di controllo che nel modernissimo impianto di Terni della Krupp a quanto pare non stanno funzionando come dovrebbero.
Dopo 4 mesi di denunce e dibattiti pubblici, scatenati dagli interventi del presidente della Repubblica Napolitano e dal presidente della Camera Bertinotti, finalmente vede luce il nuovo testo della sicurezza, in vigore dal 25 agosto. Ma il quotidiano bollettino di guerra sulle morti bianche, in particolare nel settore industriale, sembra smentire le dichiarazioni (e rassicurazioni) rilasciate fra aprile e maggio dal presidente di Confindustria Montezemolo, che ha più volte declinato ogni responsabilità dell'industria italiana e del modello del Belpaese sulle stragi sul lavoro.
A cosa si può allora attribuire quel 52 per cento di decessi nelle industrie del Nord? E cosa sta accadendo nelle acciaierie di Terni? Il presidente di Confindustria dovrebbe fare uno sforzo di chiarezza, anche aiutato dalla nuova legge, sulle responsabilità del modello produttivo italiano e, magari, senza scaricare le responsabilità solo sul lavoro nero e sui subappalti, cercando perciò di dare un quadro di quello che è oggi il sistema industriale in Italia.