Avrei dovuto scriverla al Suo predecessore questa lettera, all'uomo che ha definito "amici di Caino" la molto molto esigua schiera di invisibili operatori penitenziari (educatori, psicologi, assistenti sociali), ai quali sembrerebbe demandato il compito di estirpare la gramigna -dopo averla individuata- dal giardino fiorito della nostra civile società. Quelli che debbono valutare se gli Izzo e le Eriche siano pronti per uscire. Pentiti. Redenti. Cambiati. Cresciuti. Socialmente non più pericolosi.
Ma questo immane improbo impegno quotidiano catturava tutta la mia attenzione ed esauriva tutte le mie energie. Adesso però, forte di una necessaria pausa fuori dalle sbarre, ho riflettuto che vale forse la pena di investire sul futuro.
Voglio allora porre pubblicamente una domanda, non solo e non tanto ai miei colleghi, ma agli insegnanti, agli assistenti volontari, ai religiosi, agli istruttori dei corsi, ai vari cittadini "di buona volontà", ed anche a tanti pubblici amministratori, che entrano quotidianamente in carcere per dare il loro contributo: quando varcate i cancelli, quando chiedete una informazione, mentre svolgete il vostro compito, mentre attendete che un cancello sia aperto, quando aspettate una autorizzazione, quando cercate di comprendere qual è "la regola" (si capisce infatti subito che le regole del fuori lì non valgono...), non avvertite un certo non so che di vagamente inquietante, un diffuso, inspiegabile, apparentemente immotivato sentimento di "soggezione" che vi accompagna?
Sì, lo so, dopo un po' ci si abitua, risponderanno i veterani, si capisce come funziona, si conoscono le persone, le diffidenze cadono e ci si ammala persino di una sottile malattia, la "carcerite" la chiamiamo noi, un attaccamento strano, una nostalgia, un fascino, come il mal d'Africa: ci devi ritornare. E cominci a sentirti un po' paladino, talvolta addirittura un po' prescelto, trait d'union tra il male e il bene, cerchi di fare del tuo meglio nonostante tutto, apprendi pazienza tolleranza temperanza umiltà e prima o poi riconosci le ragioni di ognuno, di qua e di là dalle sbarre, una lezione di vita insomma, per la quale ringrazi Dio il fato la tua buona stella la tua caparbietà o il tuo kharma. Qualche volta ti sembra persino di aver guadagnato l'appartenenza.
Ma quel vago (seppur dignitoso o anche bellicoso) strano sentimento di soggezione non ti lascia, sorridi ad ogni cancello per affrontarlo, per esorcizzarlo e talvolta per celarlo. La tua identità ne risulta leggermente compromessa, ma tu hai un compito e lavori per l'obiettivo, nulla o quasi ti può fermare, tu porti sollievo e passione, emozione e partecipazione, e sei pervaso da un bisogno antico che ogni giorno è costretto a riproporsi, il bisogno di Giustizia.
Signor Ministro (e onorevoli miei colleghi sparsi e dispersi e persi nei luoghi più dimenticati e sconosciuti della nostra società e della nostra coscienza collettiva), lo ammetto - ebbene sì - il Ministro Castelli aveva ragione! Rischi di vedere la luce divina dove ancora alberga il buio. Magari lui - secondo il mio modesto parere - non aveva messo a fuoco il motivo, e non so quanto vedesse la passione (civile), la partecipazione (consapevole), la riflessione unita all'emozione, e forse soprattutto il bisogno di giustizia degli amici di Caino. Ma come si fa a distinguere il Bene dal Male e a restare coerente quando i parametri di riferimento condivisi sono scomparsi attorno a te? O sono addirittura ribaltati?
E - ma questo è un altro capitolo - quando circa 500 educatori (operanti effettivamente negli istituti) ed ancor meno psicologi devono ascoltare osservare valutare e soprattutto "trattare" e sostenere i circa 60.000 detenuti delle carceri italiane, in condizioni di lavoro così lontane da ciò che di norma si considera "civile"?
Cari colleghi, vi faccio una proposta: e se dichiarassimo pubblicamente la resa? Sarebbe senz'altro più onorevole. E forse persino più efficace. A chi giova il nostro quotidiano affanno? Noi, noi lo sappiamo che non è un problema di numeri, anche se quello è un capitolo significativo. È esemplificativo, ma non è il più significativo. Significativa è la soggezione. Arrendiamoci. Raccontiamola. E ricominciamo da lì. Un appello al signor Ministro della Giustizia. Esito, le parole mi mancano. Me ne viene in mente una, il coraggio.
Liliana Lupaioli, Educatrice
Responsabile area pedagogica
Casa circondariale di Pistoia