La costante attenzione della Chiesa ai problemi del carcere e alla necessità di un provvedimento umanitario e di clemenza - rievidenziata in questi giorni dalle alte parole del presidente del Consiglio per la Giustizia e la Pace, cardinale Renato Martino - è come una goccia che scava tenace sulla roccia.
Peccato che molta parte della politica sia del tutto impermeabile a quelle gocce e a ogni sollecitazione. Più dura e sorda di qualsiasi pietra.
L'appello del cardinal Martino, che non è solo iniziativa personale ma espressione di volontà ampie e corali, rischia già di venire svilito nel balletto dei distinguo, degli schieramenti pregiudiziali, delle parole vuote e di quelle insincere, del gioco delle parti e di quello degli equivoci.
Un déjà vu che si ripete a cicli regolari dal 2000. Una finzione di cui i detenuti hanno imparato a diffidare, avendo segnato in profondità la loro pelle e ucciso le loro speranze. Qui sì c'è una inescusabile recidiva delle forze politiche.
L'amnistia e l'indulto (non l'indulto senza amnistia e tanto meno le leggi-truffa degli indultini e indulticchi) erano e rimangono una pressante necessità: non un semplice gesto di clemenza, ma, al tempo stesso, una precondizione per riforme serie e strutturali e un risarcimento per le condizioni in cui decine di migliaia di persone chiuse in cella sono costrette a vivere e decine di migliaia di operatori sono costretti a sopportare nel loro quotidiano lavoro dentro gli istituti penitenziari.
Ma non ha veramente senso fingere di discuterne quando ancora non è insediato un governo e neppure si è deciso quale debba essere il ministro della Giustizia.
Al di là della persona, noi vogliamo dire quali dovrebbero essere le caratteristiche del suo mandato: un radicale e tempestivo cambio di rotta rispetto alle politiche sin qui seguite. E non solo riguardo lo sciagurato "Castellismo", che, al di là delle amnistie, del caso Sofri o di misure strutturali, non ha voluto neppure attuare il regolamento penitenziario e garantire condizioni di vita minimamente dignitose e accettabili.
Il cumulo di problemi che strangola le carceri viene da lontano e ha responsabilità diverse.
Cambio di rotta significa innanzitutto buttare nel cestino la legge sull'immigrazione, quella sulle droghe, quella che ha aggravato il trattamento sulle recidive (legge "ex Cirielli") e ucciso la legge Gozzini: vale a dire le normative (e le filosofie sottostanti) che hanno portato le carceri al tracollo con gli oltre 60.000 reclusi e il crescere della disperazione (14 i suicidi solo nei primi tre mesi del 2006, almeno 57 quelli dello scorso anno, decine e decine sono i decessi per mancata assistenza sanitaria, mentre sono decine di migliaia le manifestazioni di protesta e i gesti di autolesionismo).
Cambiare rotta significa smettere di pensare al sistema carcerario come a un business o a un deposito di vite a perdere e cominciare a riformarlo con rapidità, coerenza, decisione, efficacia.
Cambiare rotta significa individuare una figura di ministro che garantisca per davvero queste diverse direttrici di marcia, al di là dei veti delle corporazioni (che già hanno provocato la messa da parte di una figura autorevole e capace come Giuliano Pisapia), al di là degli equilibrismi di coalizione e i tatticismi e mercanteggiamenti di partito.
Cambiare rotta significa smetterla con le parole vuote e false che troppi esponenti politici stanno diffondendo ancora in questi giorni.
Per parte nostra, assieme ad associazioni e volontari, in queste settimane stiamo lavorando alla ricostituzione di un "cartello" di forze per rimettere sul tavolo delle priorità e delle cose concrete quel "piccolo Piano Marshall" per le carceri che avanzammo nel 2000, assieme alla proposta di amnistia e indulto, e che rimane precondizione vera per l'effettivo reinserimento sociale. Un complesso di iniziative che avrà da subito al centro la complessiva proposta di riforma dell'ordinamento elaborata da Alessandro Margara, già a capo del DAP, e dal magistrato di Milano Francesco Maisto e di cui discuteremo anche il 26 maggio in una grande assemblea che si terrà dentro il carcere di Padova.
Sergio Cusani e Sergio Segio