"Il serial killer Donato Bilancia va in permesso": la notizia è stata sparata così, in modo provocatoriamente affermativo, nei titoli d'apertura di Studio Aperto del 9 aprile, all'indomani del funerale del piccolo Tommaso. Vero che poi, nel corso del servizio, quel perentorio "va" è stato sostituito da un prudentemente ipotetico "potrebbe andare", ma il pugno nello stomaco a una pubblica opinione già scossa e avvelenata dalla tragedia di Parma è stato comunque inferto, e certo ha contribuito a fomentare ulteriormente quel clima di avversione preconcetta nei confronti della legge Gozzini e dei benefici penitenziari da essa introdotti che si respira sempre più distintamente nel Paese.
Di fronte a una simile provocazione ("Il serial killer Donato Bilancia va in permesso"), lanciata peraltro subito dopo una serie di servizi di taglio fortemente emotivo dedicati ai funerali del piccolo Onofri e alle indagini sui suoi carnefici, per una volta ho provato anch'io, nel chiuso della mia cella, a ragionare con la testa di un qualsiasi comune cittadino, e a collegare la (falsa) notizia del permesso concesso al pericolo pubblico di ieri all'orrore ancora bruciante suscitato dal pericolo pubblico di oggi, l'assassino (o gli assassini) di Tommaso. Con un simile accostamento non ho dubbi che sarebbe fatalmente scattata anche in me, come in tutti, l'allarmante equazione che segue: se lasciano uscire in permesso uno come Bilancia, con diciassette omicidi e tredici ergastoli sul gobbo, fra qualche anno faranno uscire senz'altro anche Alessi.
Ma le cose non stanno così, e proporle in questi termini è più che inesatto: è gravemente fuorviante. A parte il fatto che gli omicidi seriali di Bilancia e la tragedia di Parma rappresentano comunque due fenomeni estremi, e che come tali hanno ben poco da spartire con la cosiddetta "delinquenza comune" (quella che affolla effettivamente le carceri e per cui l'ordinamento penitenziario prevede la possibilità di accesso a forme premiali, come i permessi), va precisato ancora una volta che i cosiddetti "benefici penitenziari" (permessi, semilibertà, affidamento) non sono dei diritti ma, appunto, dei benefici, e che vengono pertanto concessi o negati all'infuori di ogni automatismo. A essi un detenuto può aspirare solo dopo aver scontato un congruo periodo di carcerazione e a condizione che la magistratura di sorveglianza - cui è affidata in modo di fatto insindacabile ogni decisione in questa delicatissima materia - ravvisi nel suo comportamento in carcere (buona condotta) e nella sua maturazione morale e sociale (revisione critica del proprio passato criminale) i requisiti ritenuti indispensabili per l'avvio di un suo graduale reinserimento nella società.
Qualsiasi detenuto, scontata una parte consistente della propria pena, può fare "istanza di permesso premio", come si dice in gergo; e quindi è possibile che una domanda del genere l'abbia avanzata anche Bilancia. Ma una simile richiesta vale meno di zero se non è supportata da tutta una serie di riscontri positivi che nel caso di Bilancia, con tutta evidenza, non sono ipotizzabili. È il caso di ricordare infatti che la magistratura di sorveglianza assume le sue decisioni sulla scorta di una serie di elementi forniti sia dal personale penitenziario (direttore, educatori, agenti di custodia, psicologi, assistenti sociali) che dalle forze dell'ordine (legami rescissi oppure no con la criminalità organizzata, pericolosità sociale), e che nel valutare ogni singolo caso viene naturalmente preso in considerazione anche l'allarme sociale suscitato, all'epoca in cui vennero commessi, da crimini di particolare gravità ed efferatezza.
Mi pare giusto dire che si tratta di un argomento molto delicato, e controverso, anche per noi detenuti. Alcuni mesi fa, in una delle consuete discussioni che organizziamo nella redazione di Ristretti Orizzonti, alcuni di noi sostenevano che - nel concedere o meno i benefici - la magistratura di sorveglianza dovrebbe limitarsi a valutare il nostro comportamento detentivo, astenendosi dal richiamare ancora una volta in causa natura e gravità del reato che ci ha portato in galera; altrimenti - osservavano - continuiamo a essere identificati all'infinito solo e soltanto nel nostro crimine, indipendentemente dal percorso di recupero morale e sociale che stiamo compiendo, e viene vanificata così ogni prospettiva di un nostro effettivo ritorno a una vita normale. Pur concordando sulla necessità di essere messi al centro di ogni valutazione come persone e non solo come autori di reato, altri di noi osservavano invece che il buon senso prima e l'opportunità, poi, di salvaguardare la legge Gozzini (quella che ha introdotto i benefici penitenziari, e che finisce regolarmente sotto accusa, spesso a sproposito, ogni volta che viene consumato un reato particolarmente allarmante), impongono che la concessione dei permessi e degli altri istituti premiali sia sottoposta a un "filtro" molto rigoroso. Diversamente, bastano pochi fallimenti gravi (si pensi soltanto ai casi Izzo e Dorio, e alle violente ripercussioni polemiche che hanno innescato) per mettere in crisi tutto il sistema e per dare fiato ai protervi sostenitori del "chiudeteli dentro e buttate via la chiave".
Le galere sono piene di persone che sono "nei termini" per andare in permesso ma che in permesso in effetti non vanno
Di fronte a problemi tanto delicati, occorrerebbe un'informazione più sobria e responsabile, pronta sì a denunciare i fallimenti, quando in effetti avvengono, ma anche a mettere nel giusto rilievo il loro carattere eccezionale. La legge Gozzini e i benefici penitenziari che ha introdotto non possono insomma continuare a essere demonizzati ogni volta che un singolo "beneficiato" ne approfitta per commettere nuovi crimini, dimenticando che nella stragrande maggioranza dei casi chi accede agli istituti premiali si attiene alle regole. Non dispongo di dati precisi, per quel che riguarda i permessi premio; per quel che riguarda invece la semilibertà (misura che consente al detenuto di lavorare all'esterno, di giorno, per tornare poi la sera in carcere) questa mia affermazione è ampiamente suffragata dalle statistiche dello stesso ministero della Giustizia, dalle quali risulta che solo dieci dei 3500 detenuti ammessi a questo beneficio nel corso del 2005 ne hanno approfittato per commettere nuovi reati (0,29 per cento). Dieci casi comunque "di troppo", che non hanno scusanti; ma proporzionalmente non sufficienti, mi pare, per mettere in discussione l'istituto stesso della semilibertà, che è stato portato a buon fine dalla stragrande maggioranza (99,71 per cento) dei detenuti che ne hanno fruito.
Ma vorrei tornare ancora un momento a Donato Bilancia - e all'allarme suscitato dalla falsa notizia della concessione di un permesso a suo favore - per fare un po' di chiarezza sui presunti automatismi contabili (tot anni scontati, tot benefici) della tanto ingiustamente vituperata legge Gozzini. Se da un lato risponde al vero che essa fissa in dieci anni (otto, se uno si merita la liberazione anticipata per buona condotta) la soglia minima oltre la quale ogni detenuto, qualunque sia l'entità della condanna inflittagli (fatta eccezione solo per i cosiddetti "reati ostativi", come il sequestro di persona e l'associazione, i cui autori possono accedere alle misure premiali solo nel caso abbiano collaborato con la giustizia), può fare istanza di permesso premio, nella realtà la concessione di tale beneficio è tutt'altro che scontata. Non a caso le galere sono piene di persone che sono "nei termini" per andare in permesso ma che in permesso in effetti non vanno, perché la magistratura di sorveglianza non ritiene realizzate nei loro casi quelle condizioni (le ripeto: buona condotta detentiva, revisione critica del passato criminale, cessata pericolosità sociale, ecc.) ritenute indispensabili per l'avvio di un loro graduale reinserimento nella società.
Mi viene in mente in proposito un caso doppiamente emblematico, perché riguarda l'autore di un crimine che a suo tempo destò un altissimo allarme sociale e perché è ritornato d'attualità proprio nelle scorse settimane: mi riferisco a Luigi Chiatti, condannato a trent'anni di reclusione per avere ucciso, nel 1993, due bambini. Ebbene, nel 2001 giornali e televisioni dettero gran rilievo al fatto che, entrato nei "termini", avesse presentato alla magistratura di sorveglianza un'istanza di permesso premio. Dai toni scandalizzati dei titoli e dei commenti, si sarebbe detto che il "mostro di Foligno" avesse già un piede fuori dal carcere, e invece quel tanto strombazzato permesso a distanza di quasi sei anni dalla richiesta non gli è ancora stato concesso. E difficilmente gli verrà concesso anche in futuro, visto che è proprio delle settimane scorse la notizia che la Cassazione, alla quale Chiatti si era rivolto vedendosi rigettare l'ennesima richiesta di permesso premio, ha confermato il no espresso a più riprese, nel suo caso, dalla magistratura di sorveglianza.
In conclusione sono persuaso che, se prevalesse la corretta conoscenza dei fatti e l'equilibrio dei commenti, i cittadini italiani potrebbero dormire sonni più tranquilli: la legge Gozzini non è fatta per proteggere i "lupi" e per metterli nelle condizioni di replicare i loro delitti, e la magistratura di sorveglianza - come è giusto che sia - decide se accordare o no i benefici da essa previsti caso per caso, con grande rigore e senso di responsabilità.