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Lodi: storia di Giovanna e Giuseppe
di Luigi Manconi
Fonte: L'Unità, 31 gennaio 2005
31 gennaio 2006

"Dall'inizio di dicembre 2005, detta Direzione mi poneva in essere pareri ostativi per il colloquio con il mio convivente in quanto al dire di questa non vi erano i presupposti...". Questo breve passo di prosa burocratica contiene, in realtà, un dramma e racconta una storia di ordinaria sciatteria penitenziaria: la storia di Giovanna D., 40 anni, milanese, che ha sporto denuncia contro la direzione del carcere di Lodi perché le impedisce di fare visita al suo compagno, lì recluso. La nuova direttrice di quell'istituto ha deciso che i colloqui possono essere concessi solo ai parenti "in regola". E Giovanna e Giuseppe (questo il nome del detenuto) in regola non lo sono: perché non hanno contratto matrimonio. "Io amo mio marito, non siamo sposati è vero, ma io lo considero mio marito. Fateglielo sapere che non mi fanno entrare, diteglielo che non l'ho abbandonato".
Così si esprime questa donna. Alla quale verrebbe da dire: "Mabenedetta signora, perché non te lo sei sposato? Non sai che in questo paese ai conviventi non sono riconosciuti i diritti più elementari?". Già, perché la coppia in questione era convivente: e mica da un giorno,ma dal lontano 1999 e fino al 2004, anno dell'arresto di lui. Giovanna ha pensato bene che tanto bastasse a dimostrare la loro unione familiare: quindi, su richiesta della stessa direzione, ha presentato (riportiamo dalla denuncia) "un certificato dello stato di famiglia, di residenza, di anagrafico storico dal quale evidenzia che lui è effettivamente residente nella mia abitazione dal 1999 e la dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà more uxorio". Poteva bastare? Evidentemente no.
La direttrice deve aver pensato bene che, in assenza di una normativa che tuteli simili unioni, di tutte quelle carte poteva tranquillamente farsene beffa. E così, in effetti, ha fatto.
Carte bollate, certificati e altri atti burocratici non sono servite neppure a far recapitare a Giuseppe un pacco natalizio di vivande e regali (un po' di cibo, qualche maglione...). Tutto rispedito al mittente. Ma non si tratta esclusivamente di una vicenda personale. Più in generale, volontariato e associazioni attive in quel carcere lamentano il blocco delle attività di formazione e un atteggiamento autoritario, che è giunto persino a negare il permesso per un dibattito antimafia, che si doveva tenere in quell'istituto, per non meglio precisate divergenze rispetto "all'impostazione politica e di parte dell'iniziativa"; e che ha interrotto un esperimento unico in Italia: un inserto di 4 pagine, una volta al mese, pubblicate sul quotidiano locale, "Il Cittadino", e scritte dai detenuti. "Uomini liberi", era il titolo di quello spazio, ora soppresso. Ma torniamo alla vicenda di Giovanna e Giuseppe. I due non sono, in ogni caso, nelle condizioni di sposarsi (qualora lei lo volesse, qualora lui lo desiderasse), perché lei risulta sposata con un uomo, che denunciò per maltrattamenti e che si rese irreperibile per sottrarsi all'arresto: e dal quale, pertanto, non può neppure separarsi e poi divorziare. Questo succede nell'Italia senza Pacs e "unioni civili": ovvero che una persona rischi di rimanere sposata a un balordo, e che quel vincolo impedisca di veder riconosciuta dallo stato ogni successiva relazione. E che all' uomo che ami e con il quale hai vissuto per cinque anni non puoi neppure mandare un pacco di lenticchie per Natale. Speriamo solo che Giuseppe, in carcere, possa leggere questo giornale. Noi il messaggio, almeno quello, glielo recapitiamo: "Caro Giuseppe, Giovanna non si è scordata di te. Ti ama e ti pensa, si sta dando da fare per tornare presto a farti visita. Tieni duro". Scrivere a: abuondiritto@abuondiritto.