L'ennesima puntata sull'amnistia-indulto è finita, affondata da un voto congiunto Lega, An, Ds e Margherita di cui in altri tempi ci si sarebbe vergognati. "Forcaioli di tutt'Italia unitevi", ha crudamente titolato "il manifesto", che pure sui temi del carcere si spende con parsimonia. In maniera bipartisan i partiti si sono cimentati un mese intero in divisioni, temporeggiamenti, scambio di accuse e di comunicati, gare di visibilità. E chiacchiere, tante chiacchiere. Una pessima, cinica e già veduta telenovela. Ora l'amnistia è sepolta. Sarebbe potuta andare diversamente? Probabilmente sì. Certo era necessaria la precondizione di vedere, volere e dichiarare amnistia e indulto come primo atto di un "nuovo corso" della giustizia. Un segnale, concreto e propedeutico, di discontinuità rispetto alle politiche sin qui seguite, caratterizzate dalla massima tolleranza verso i reati dei "potenti" e dall'intransigente rigore verso quelli della marginalità sociale, verso tossicodipendenti e immigrati. In molti hanno invece pensato possibile e lineare varare in dicembre la legge ex Cirielli (o rivendicare i Cpt) e caldeggiare (a parole e per finta, ovviamente) l'amnistia per fine anno; alcuni, anzi, non hanno avuto pudori nel partecipare in prima fila alla Marcia di Natale per l'amnistia, che ha visto più politici presenti di quanti non ve ne siano poi stati a chiusura della seduta del 27 dicembre, appositamente e straordinariamente convocata alla Camera per verificare le reali disponibilità. Sarà dipeso dal fatto che era maggiore il numero di telecamere e giornalisti alla Marcia di Pannella di quello previsto a Montecitorio.
Fatto sta che Ds e Margherita si sono infine compattati sulla proposta del solo indulto o, meglio, di un indulticchio, parziale e "a scalare". Come non vi fosse stato già l'indultino dell'agosto 2003: vera e propria truffa, sin dal nome. Sbagliare è umano (anche i radicali lo appoggiarono), specie per una politica miope e sorda alle voci del sociale, ma stupisce che quel provvedimento venga ancora rivendicato da chi lo promosse e ora ne enfatizza le cifre: sarebbero 8.000 i "beneficiati". Si dimentica però di dire che la gran parte avrebbe comunque avuto accesso all'affidamento al servizio sociale e, soprattutto, che circa uno su tre è già rientrato in carcere, in buona misura a causa delle prescrizioni vessatorie, non previste nell'esecuzione delle normali misure alternative. Dunque l'indultino non solo non ha consentito maggiori uscite, ma semmai ha prodotto reincarcerazioni che non ci sarebbero state con le normali misure. Un saldo insomma del tutto negativo. E perseverare certo è diabolico.
Una diversa conduzione di questa campagna per l'amnistia sarebbe stata altrettanto indispensabile. Occorreva dall'inizio ragionare e agire in logica di "rete" e non di partito. Per costruire iniziative "dal basso", per realizzare le necessarie alleanze, per coinvolgere associazioni, volontariato, realtà cattoliche, operatori. Si è preferito "usarli", immaginando bastasse che Prodi e Berlusconi si accordassero, con consuete logiche della peggior politica. La battaglia per amnistia e indulto, però, è così difficile che non può essere pensata e gestita come occasione per piantare bandierine di partito, per essere giocata elettoralmente o per acquisire contrattualità nei rapporti e negli accordi tra forze dell'Unione. Ma così sono andate le cose, e così stanno adesso. Con i detenuti beffati e pure mazziati. Stante che neppure la legge istitutiva del Garante nazionale dei detenuti è uscita dalle paludi parlamentari. A novembre, dopo molte iniziative e digiuni, impegni al riguardo erano stati presi dal presidente della Camera Casini e da quello della Commissione giustizia Pecorella. Evidentemente, impegni di carta straccia. Come ogni altro impegno del centrodestra per riformare davvero le carceri. Non è affatto sicuro che l'amnistia si faccia nella prossima legislatura a opera del centrosinistra, se dovesse vincere le elezioni. Ma rimane certo che detenuti, operatori e volontari non rimpiangeranno l'attuale governo.