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carceri e amnistia - una lettera a marco pannella
Sergio Segio
18 novembre 2005

A Marco Pannella

Caro Marco,

leggo dalle agenzie delle tue sollecitazioni all'Unione sul tema dell'amnistia, affinché venga presentata ufficialmente una loro proposta al riguardo.
Mi premeva farti giungere subito la mia solidarietà e vicinanza, nonché la massima disponibilità per ogni futura iniziativa.
Sei tra i pochi leader politici che continua ad avere a cuore il problema delle carceri, della loro situazione di illegalità e disumanità che si trascina nella massima indifferenza politica, così tanto che si può e si deve parlare di vera e propria omissione.
Omissione di soccorso, innanzitutto: nei confronti delle decine di migliaia di persone accatastate nelle celle, a causa di quel sovraffollamento che tu giustamente definisci un'urgenza sociale assoluta.
60.000 in cella, quasi altrettanti in misura alternativa alla detenzione, per non dire dei 70.000 già condannati in attesa della decisione del giudice circa la concedibilità di misure alternative, ai sensi della legge Simeone-Saraceni: quasi 200.000, una cifra che sarebbe apparsa incredibile solo pochi anni fa. E sarà per questo che viene accuratamente taciuta e nascosta, così come nel carcere si nascondono i problemi sociali e la vita delle persone, come pattume sotto il tappeto.
Persone abbandonate a se stesse, spesso senza adeguata assistenza sanitaria, a macerarsi e incattivirsi in attesa del giorno della scarcerazione e dell'eterno pendolarismo tra dentro e fuori, reso pressoché inevitabile ed essendo del tutto prevedibile, stante la totale assenza di politiche e attenzioni tese al recupero, alla formazione, al reinserimento sociale e lavorativo. Un detenuto su quattro non ha un posto dove dormire allorché sarà scarcerato, per non dire della possibilità di avere un lavoro o un reddito. Chi entra in carcere è un emarginato, chi ne esce è emarginato due volte: per pregiudizio sociale e per legge, basti pensare al micidiale meccanismo delle pene accessorie e delle misure di sicurezza che impediscono concretamente la risocializzazione e spesso il lavoro, che continuano a mantenere la persona condannata in uno stato di cittadinanza di serie B, anche al termine della pena e nel rientro nella società.
La migliore politica per la sicurezza sarebbe quella di scongiurare tutto ciò. Ma per una politica miope e distratta è molto più facile alimentare periodiche campagne allarmistiche e securitarie sul crimine, che non porvi veramente mano attraverso scelte di prevenzione e di adesione sostanziale al dettato costituzionale, al reinserimento. E così pure, in ossequio e conseguenza indiretta dell'enfatizzazione securitaria sull'immigrazione e sulla tossicodipendenza, si sono distratte risorse e attenzioni dal contrasto al crimine organizzato e al narcotraffico; con i risultati sanguinosamente da ultimo evidenziati in Calabria.
Si tratta dunque di "non scelte" (perché non è definibile tale quella di puntare sull'edilizia penitenziaria: quello è solo business) da parte di chi ha il potere e il dovere di intervenire, che comportano costi umani - poiché riverberano in termini di vite buttate come vuoti a perdere e di spirale della recidiva obiettivamente incentivata - ma anche costi economici, stante che tenere una persona in carcere, peraltro in queste condizioni miserevoli, costa 63.875 euro l'anno, naturalmente in gran parte per la struttura, mentre per il vitto di ogni recluso si spendono 1,58 euro al giorno (non è un refuso, è la cifra media con la quale l'amministrazione deve fornire quotidianamente colazione, pranzo e cena).
Tenere un tossicodipendente in carcere (e sono almeno 18.000) costa il quadruplo che assisterlo in una comunità o affidarlo a un servizio pubblico. E lo stesso vale per tutte le altre "vite a perdere" che sono lì concentrate, immigrati, malati, emarginati.
Omissione vi è anche nei confronti delle legittime aspirazioni degli operatori e di quanti lavorano nelle carceri a una più degna professionalità e riconoscimento, anch'essi trattati come lavoratori di serie B, con diritti dimezzati.
È una situazione peraltro destinata a peggiorare, dopo la Cirielli, come hanno - tardivamente, a legge già approvata - denunciato ieri anche i direttori dei penitenziari, associandosi così alle nostre voci, quelle dei volontari e delle associazioni che nei mesi scorsi hanno lanciato l'allarme su un provvedimento che porterà in breve all'aumento di 20.000 detenuti, senza trovare alcun ascolto e riscontro.
E vi è da dire che le forze del centrosinistra su questo sono state per lo più silenti e distratte, se non talvolta culturalmente complici del centrodestra, preferendo concentrarsi sugli eventuali "salvati", disinteressandosi dei "sommersi".
Ora tu, giustamente, ti appelli alle forze e al leader dell'Unione per rilanciare l'urgenza e la necessità dell'amnistia.
Lo abbiamo fatto anche noi, nei mesi scorsi, negli anni passati. E non possiamo dire di aver avuto risposte serie e concrete. Ricordiamo tutti come è naufragata la proposta dell'indulto e amnistia che abbiamo lungamente portato avanti - come cartello di tutte le maggiori organizzazioni, come volontariato e forze sociali - nell'anno del Giubileo e ancora dopo. Naufragata malamente, nell'ipocrisia degli applausi al Papa e del cinico gioco del cerino tra centrodestra e centrosinistra.
Naturalmente, bisogna fare quel che si deve, quel che si ritiene giusto. Poi succederà quello che può, quello che le forze politiche vorranno mettere o meno all'ordine del giorno. Ma forse non è solo questione di sensibilità e lungimiranza dei partiti. È questione di una società così abituata a vedere centinaia di poveracci affogare davanti alle proprie spiagge, così assuefatta dalle crescenti povertà e paure, da non avere più forza e voglia di coltivare quei sentimenti e di sollecitare quelle scelte che, sole, rendono umana e giusta la convivenza, accettabile la vita nelle nostre città. È questione del silenzio e anzi del ri-sentimento un po' vile col quale si cerca di cacciare dalla vista e dalla coscienza tutto ciò che non piace, che si avverte come diverso e per ciò minaccioso.

Così anche la vicenda di Bompressi, condannato a sei mesi (sei mesi di carcere, senza più sforzo di proporzione o misura) per essere stato nell'orto di casa anziché rinserrato al suo interno come in una cella, non viene letta, commentata, denunciata come intollerabile e inutile persecuzione, come pura e distratta cattiveria. Passa via inavvertita, come fosse normale. In effetti, lo è diventato. Così come è diventato normale sparare con un revolver calibro 38 e ferire una bambina rom di 12 anni, com'è successo martedì scorso a Bologna, perché si sospettava che stesse forzando una porta. Certo, c'è la paura degli anziani, delle donne che hanno timore nel rientrare la sera, dei commercianti che si sentono minacciati nei loro averi. Occorre tenerne conto e averne rispetto.
Ma forse è proprio della coazione ad avere paura che bisognerebbe avere paura. Dei meccanismi che producono paura e degli interessi che vi speculano. E forse occorrerebbe chiedersi come siamo arrivati a questo e dove si stia andando. E magari tornare a pensare alla legalità come un mezzo e non come un fine a sé stante, alla sicurezza come a un obiettivo e non come a un feticcio al quale sacrificare vite e stili di vita.
Certo, possiamo continuare a non farlo, e ritrovarci tra poco con 400.000 persone sotto controllo penale, o con le periferie in fiamme. E poi si ricomincerà a riempire i giornali di parole vuote, di chiacchiere inutili e si continuerà a invocare tolleranza zero e si chiederanno 10, 100, 1000 nuove carceri e nuovi ghetti nei quali nascondere le vite dei poveri e dei diversi.
Ecco perché, caro Marco, la tua richiesta di porre all'ordine del giorno (addirittura prima di Natale) la questione amnistia mi pare importante.
Culturalmente, socialmente, politicamente importante.
Non solo perché consentirebbe di ridare fiato e dignità a chi vive e lavora in carcere, ma anche perché costituirebbe occasione per tutti di ripensare l'insensatezza di questa spirale illiberale e liberticida in cui siamo precipitati e nella quale il centrosinistra cui ti appelli pare spesso sciaguratamente trovarsi a suo agio.
A maggior ragione, non si può che essere pessimisti.
Ma se anche questa fosse l'ennesima tua (ma permettimi di dire nostra) battaglia perduta, non di meno occorre affrontarla. Senza creare nuove illusioni in chi sta in carcere, dove già ora la disperazione e il cupo silenzio sono le tonalità dominanti. Ma avendo la forza e la determinazione di indicare comunque ciò che è giusto e necessario.
Un caro saluto e un sincero augurio per la tua nuova avventura politica

Sergio Segio