Quest'anno una colonia di 60 neonati (o poco più grandi) ha passato le vacanze in cella. Per loro niente mare, né montagna, solo qualche ora di permesso in più da trascorrere, controllati a vista dalle guardie, nel cortile del reparto nido di uno dei 12 penitenziari italiani che in questo momento ospitano 56 madri con a carico bambini con meno di tre anni. Niente di strano, per loro le vacanze "in the jail" sono un appuntamento fisso.
Nel 2005 fra le mete più richieste si è distinta Roma Rebibbia con 16 mamme e altrettanti bambini, seguita da Avellino Bellizzi con 7 mamme e 8 figli e Torino Lorusso e Cotu con 6 mamme e 7 bambini. Estate sotto tono, si fa per dire, per Milano San Vittore dove sono rinchiusi "solo" 4 bambinetti e altrettante madri.
Ma chi sono questi giovanissimi vacanzieri del "lido carcere"? Leda Colombini, presidente dell'associazione A Roma insieme, li conosce bene. Da 11 anni infatti ogni giorno entra nel femminile di Rebibbia dove presta la sua opera da volontaria. "Sono i figli delle detenute che non possono accedere alla legge Finocchiaro (n. 40 del 2001, ndr), nel 90% dei casi nomadi". Nel marzo di quattro anni fa la responsabile giustizia dei Ds aveva favorito l'approvazione di una norma che oggi porta il suo nome per consentire l'accesso alle misure alternative alle carcerate con prole inferiore ai 3 anni o incinte. Il fallimento di quel nobile provvedimento sta nei numeri: oggi in carcere vivono 60 bambini, dieci anni fa ce n'erano 31. Nel 2001, anno in cui è entrata in vigore la legge, erano 63. Un flop che l'avvocato Stefania Bocale, impegnata proprio in queste settimane su input dell'associazione A Roma insieme nel definire un testo di riforma della Finocchiaro, spiega così: "Perché quella legge sia applicata il giudice deve prevedere l'assenza di un concreto pericolo di reato, ma qui siamo di fronte a una tipologia di persone che molto spesso vive nella microcriminalità. Anche se si tratta di reati non gravi, il pericolo di recidiva esiste nel 99% dei casi". Un altro ostacolo insormontabile, osserva Lia Sacerdote, psicopedagogista, vicepresidente dell'associazione milanese Bambini senza sbarre, è costituita "dall'inapplicabilità della norma in caso di pena non definiva e in caso di assenza di residenza", due condizioni molto frequenti fra le rom e i clandestini.
Ma perché queste mamme non lasciano i figli in libertà? Lillo Di Mauro, presidente della Consulta permanente per i problemi penitenziari per il Comune di Roma, osserva che "questa è una prospettiva alla quale le donne, quando possono, cioè quando hanno all'esterno una rete familiare e sociale di riferimento a cui affidare il figlio, accolgono volentieri". Ma la carcerazione dei minori è una strada obbligata per "le donne straniere che non hanno nessuno su cui poter fare affidamento".
"Per un bambino nato in prigione il legame con il carcere difficilmente si spezzerà in età adulta", spiega la volontaria della comunità di Sant'Egidio, Stefania Pelè. "Tutto, all'interno di un carcere, contribuisce a deteriorare le relazioni fra genitore e figlio". "Niente però è così devastante come il momento dell'addio", nota la Sacerdote. La legge infatti stabilisce che i bambini lascino il carcere nel giorno stesso del loro terzo compleanno, anche se la madre deve scontare un periodo di detenzione più lungo. "Questo nella madre genera un fortissimo senso di vergogna e impotenza nei confronti del figlio, mentre il bambino si sente responsabile di quell'abbandono improvviso. Pensa di essere colpevole senza capirne la ragione".
Una proposta
La soluzione possibile per evitare il carcere ai bambini? Le associazioni propongo di sostituire la detenzione in istituto con quella in case famiglia a sorveglianza attenuata, come prevede il testo elaborato da Stefania Bocale. Un proposta per la quale sono state raccolte 7mila firme tra cui quelle di diversi parlamentari, come Dorina Bianchi della Margherita, Luigi Manconi dei Ds, Enzo Fragalà di An, e di Pierferdinando Casini che, in occasione della visita al femminile di Rebibbia del 25 luglio, si è esposto in prima persona: "Evitare che i bambini crescano in carcere è un fatto di civiltà".
La testimonianza di una mamma ex carcerata
Gabriella, 48 anni, lei; Luca (chiamiamolo così), 9 anni, lui. Mamma e figlio.
Oggi vivono in un appartamento nell'estrema periferia orientale di Milano. Lei lavora come badante, lui va a scuola. Una vita normale, che però sino a pochi anni fa di normale non ha avuto proprio nulla. I primi ricordi di Luca infatti sono rinchiusi in una piccola cella di San Vittore. Era il 1997. Gabriella era stata condannata per reati connessi alla droga a 9 anni e 8 mesi (poi ridotti a 6 anni e 6 mesi). Luca, che allora aveva poco più di un anno, quindi ha passato in cella quasi 24 mesi. Condannato senza aver commesso il fatto.
Vita: Perché ha scelto di portarsi dentro anche Luca?
Gabriella: Mia madre si doveva occupare di Giada, l'altra mia figlia più grande. Non potevo affidarle anche Luca, economicamente non avrebbe retto. E poi, dopo aver perso la libertà, avere mio figlio a fianco mi dava la sensazione di aver conservato qualcosa di mio.
Vita: Per due anni...
Gabriella: Sì, è stato scarcerato il 9 aprile 1999. Il giorno del suo terzo compleanno. Non dimenticherò mai la sua faccia. Mi guardava fisso e mi chiedeva: "Mamma dove mi portano?".
Vita: Lui aveva coscienza di vivere in un carcere?
Gabriella: No. Per lui eravamo in un castello, con le sentinelle, gli orari, le sbarre e le perquisizioni. Ho fatto di tutto per fargli credere di essere in un grande gioco.
Vita: Quando Luca è uscito è andato in istituto?
Gabriella: Per fortuna suo padre, mio marito, era appena stato scarcerato e quindi Luca ha potuto tornare a casa.
Vita: E dopo?
Gabriella: Ci vedevamo ogni settimana a colloquio. Una volta, eravamo in cortile, incontra un suo amichetto, lo prende da parte e gli sussurra: "Lo sai dove siamo? Questo è un carcere!".
Vita: Aveva scoperto il segreto del castello?
Gabriella: Ormai sì. Erano passati diversi mesi. Le prime volte mi chiedeva: "Mamma, ma perché la casa dove sono adesso non ha le sbarre?".
Vita: Quanti altri bambini c'erano a San Vittore?
Gabriella: Eravamo 12 mamme e 13 bambini. Tutti stranieri tolto noi. C'erano tante zingarelle, e poi cilene e altre sudamericane.
Vita: Com'erano i rapporti ?
Gabriella: Non è facile convivere con gente così diversa. Lì si poteva cucinare una volta sola. Le zingare preparavano per bambini di pochi mesi wurstel, fritture e altre schifezze. Io a Luca non ho mai dato niente del genere.
Vita: Qual è stato il momento più duro?
Gabriella: L'estate. Faceva un caldo tremendo e poi i volontari e gli assistenti che ogni tanto portano fuori i bambini, erano in ferie. Non vedevo l'ora che finissero quelle maledette vacanze.