Nella notte tra mercoledì e giovedì, un detenuto bosniaco di 39 anni, nel reparto G12 del carcere romano di Rebibbia, si è ucciso impiccandosi. Lo rende pubblico l'Associazione Papillon-Rebibbia, che lamenta il ritardo con cui la direzione del penitenziario ha ammesso il fatto e le condizioni di estremo sovraffollamento delle carceri italiane.
Il detenuto non faceva colloqui con i familiari e sembra che l'unica parente rintracciata sia la sorella, che ha espresso il desiderio di riprendersi la salma del fratello.
Le modalità del suicidio (la corda bagnata ed un cuscino sotto lo sgabello) «lasciano pensare che il detenuto bosniaco abbia programmato e preparato meticolosamente il suicidio».
Da pochi giorni il detenuto aveva interrotto volontariamente una terapia medica per disturbi di carattere neurologico e si trovava in una cella da solo poichè gli era stato concesso di lavorare (come da lui più volte richiesto). Queste due novità (il lavoro e la cella singola) che in genere hanno un effetto tranquillizzante sui detenuti, hanno invece avuto un effetto boomerang sul detenuto bosniaco, lo punto da moltiplicare gli effetti del suo disagio psichico e indurlo al suicidio.
La Papillon- Rebibbia denuncia inoltre l'abuso della custodia cautelare (sono oltre 21mila le persone in attesa di giudizio) e invita le forze politiche ad applicare l'amnistia e l'indulto.
L'associazione chiede ancora una volta alle Giunte e i Consigli Regionali di procedere, per quanto di loro competenza, nella riforma della sanità penitenziaria.