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Perché perseguitate Adriano Ascoli?
Alberto Burgio
Fonte: da Liberazione 1 settembre
1 settembre 2005

Questa storia non parla degli Stati Uniti di Bush e del Patriot Act. Non racconta nemmeno dell'Egitto di Mubarak e delle sue carceri-lager. E' una storia italiana, simile a tante. Per questo, ai nostri occhi, ancor più importante.

E' la storia di Adriano Ascoli, un giovane tecnico informatico di Pisa arrestato alcuni mesi fa per reati associativi. L'accusa si basa sulle dichiarazioni rese da una "collaboratrice" nel quadro delle indagini sulle cosiddette "nuove Br". In sostanza, Ascoli è accusato o meglio sospettato di fiancheggiamento. Non conta nulla che sia conosciuto per la sua attività nel movimento e che sia sotto osservazione da oltre tre anni senza che nulla di concreto sia risultato a suo carico. E' andato più volte all'estero ed è regolarmente ritornato. Si è sempre dichiarato avverso alla lotta armata (a quella che egli definisce «la paranoia dell'unità del politico e del militare»). Non potrebbe inquinare alcuna prova, visto che le uniche a suo carico risiedono nelle parole di chi lo ha chiamato in causa, ben nove mesi prima dell'arresto.

Il fatto è che gli inquirenti sono convinti che egli abbia i numeri per ereditare in futuro la guida del "partito armato". Un arresto preventivo, insomma. La stampa, allora, mette i piedi nel piatto. E Ascoli diviene in breve colui che «potrebbe raccogliere l'eredità e ricostruire le file delle nuove Br». Tant'è. Le porte del Don Bosco si chiudono alle sue spalle il 6 giugno scorso. Comincia allora una avventura che non sappiamo quando e come finirà.

Il punto che qui ci interessa non sono, beninteso, le accuse mosse ad Ascoli, sulla cui fondatezza valuterà la autorità giudiziaria. E' invece quanto - fino a prova contraria - può capitare a chi abbia la sfortuna di incappare nelle maglie di un meccanismo che sembra talvolta pensato per distruggere le persone, invece che per applicare le leggi e far valere il diritto.

Ad Ascoli l'autorità penitenziaria (il Dap) applica un «elevato indice di sorveglianza» che impone, di fatto, un regime di isolamento, a meno che il carcere non sia di massima sicurezza. Poco dopo si sparge la voce che il detenuto sarà presto trasferito in un altro istituto. Ascoli, che è padre di una bimba di tre anni, comincia allora uno sciopero della fame. In città si moltiplicano le prese di posizione e le mobilitazioni in suo favore. Nel giro di pochi giorni vengono raccolte centinaia di firme. Lo stesso sindaco di Pisa fa sentire la sua voce.

Per fortuna, dopo una decina di giorni, giunge la notizia che il gip di Roma e i pm danno parere favorevole alla sua permanenza nel carcere pisano. Il clima pare rasserenarsi. Ascoli riprende ad alimentarsi, in attesa di tornare a casa, agli arresti domiciliari. Senonché, nella notte del 6 luglio, alla vigilia del pronunciamento del Riesame, viene trasferito senza preavviso nel carcere napoletano di Poggioreale, rinchiuso in assoluto isolamento nel padiglione "Venezia". E qui ha inizio una storia del tutto diversa.

A Pisa le regole sono "sensate". I detenuti, anche quelli in isolamento, possono incontrare gli avvocati e comunicare agevolmente con loro via fax e telegrammi. La vita è dura, ma ci si abitua. A Napoli (2.400 detenuti in luogo dei mille previsti) ogni giorno è un tormento. Il diritto alla socialità e la possibilità di attività collettive, culturali e fisiche sono negati a tutti i detenuti (ergastolani, definitivi o persone in carcerazione preventiva) sulla base di regolamenti interni o per la mancanza di strutture adeguate.

Nel "Venezia", dove si applica il cosiddetto "isolamento diurno" (più duro - salvo che per i colloqui - di quanto disposto dal 41bis), la situazione è ancora peggiore. Si sta 22 ore da soli, chiusi in cella, senza svolgere alcuna attività. L'"aria" è un cortile puzzolente di dieci metri quadrati, chiuso in alto da una grata che oscura il cielo. I contatti con l'esterno sono un'impresa: di regola venti minuti con l'avvocato, un po' più se viene da lontano. Capita che i telegrammi e i fax non partano per cavilli burocratici. La sorveglianza è pesante, ma alle 23 lo spioncino della cella viene chiuso e nessuno passa fino al mattino dopo a verificare se è capitato qualcosa. Inutile dire che la presunzione di innocenza non salva le persone in carcerazione preventiva da questa situazione oppressiva.

Per la famiglia di Ascoli è un calvario. I viaggi sono lunghi, costosi, faticosissimi. Poi, giunti al carcere, attese di ore in coda con altri cento, centocinquanta. La madre scrive, al termine di una di queste esperienze: «Questo colloquio ci è costato circa 250 euro, e non abbiamo dormito in albergo e abbiamo mangiato due cosette fritte a una bancarella per strada. I contatti tra avvocato e detenuto quanto verranno a costare? Il trasferimento ha il carattere di una punizione o di una persecuzione. Ma perché Adriano è stato trasferito a Poggioreale? Ce lo domanda anche la guardia quando ci accompagna all'uscita».

Già, perché? Ce lo chiediamo anche noi. Il Dap, cioè l'autorità amministrativa, decide, a quanto pare, a proprio arbitrio, disattendendo il parere dei magistrati. Per assurdo, la legge tutela i detenuti condannati (imponendo il rispetto del "principio di territorialità" e vincolando i trasferimenti all'esistenza di comprovati motivi di salute, giustizia, famiglia o studio) ma non quelli in custodia cautelare, che possono quindi essere trasferiti senza motivi comprensibili o verificabili.

All'istanza degli avvocati che chiedevano la revoca del trasferimento, il Dap ha risposto soltanto che Poggioreale «rappresenta la migliore allocazione sia rispetto alle esigenze di giustizia che a quelle relative ai colloqui con i familiari». Punto.

In Parlamento due interrogazioni sul caso sono state rivolte al ministro della Giustizia da Realacci, Russo Spena e Bulgarelli per conoscere i motivi del trasferimento. Intanto, Ascoli attende e spera. In una lettera alla compagna ha scritto: «La cosa più difficile di tutta questa storia è nostra figlia: come spiegare questa privazione assurda e incomprensibile? La cosa non può essere allungata troppo, è intelligente e meravigliosa e attenta, di sicuro ha capito che è successo qualcosa di grave. Suggerisco Pinocchio di Comencini, che sa a memoria. Geppetto va in prigione, ma poi esce, torna! E' questo che deve sapere!».

Ma questa non è una favola. E' una storia vera, come dicevamo simile a tante altre. L'idea corrente, che è anche la morale di questa vicenda, è che non si può andare troppo per il sottile. Viviamo in tempi di "emergenza" e di "guerre preventive". La "sicurezza" è il bene supremo, al quale si può ben sacrificare qualche diritto e qualche garanzia. A cosa ci condurrà tutto questo?