Come si possa declinare la parola "legalità" è stato ben esposto da don Virginio Colmegna (su "La Repubblica" di ieri): stare dalla parte di chi ha bisogno. Nel rispetto delle esigenze di tutti e di quanto è protetto dalle norme, ma non dimenticando che chi è più debole è quello che necessita delle maggiori tutele. E che le migliaia di abitanti della nostrane favelas, ad esempio, non godono di molte garanzie.
La legalità che difende solo gli interessi più forti somiglia semmai al privilegio. Vi sono infatti leggi fondamentali, quali le Carte internazionali o la stessa Costituzione italiana che tutelano i diritti umani e sociali ma che vengono sempre ignorate dai cultori di quel rigorismo ed egoismo sociale che si maschera volentieri dietro una legalità astratta, trasformata così in un feticcio retorico anziché essere proposta e riconosciuta quale collante che garantisce la civile convivenza. Convivenza tra cittadini, quale che sia il loro status sociale. E qui ricorre un punto di ipocrisia che sarebbe utile sviscerare, quasi che chi è povero, o straniero, non abbia l'eguale diritto di vedere riconosciuta la propria sicurezza e dignità.
Gli immigrati che la notte scorsa hanno compiuto vandalismi per protestare contro le condizioni in cui sono costretti a vivere nel centro di via Corelli hanno certamente contravvenuto a leggi precise e ne subiranno giustamente le conseguenze. Ma altrettanto sicuro è che quanti sono rinchiusi in quel luogo, eufemisticamente definito di "permanenza temporanea", sono molto di sovente vittime di ben più gravi illegalità e ingiustizie. È questa la storia, tra le tante, di S.G., un trentenne di famiglia rom chiuso in via Corelli in attesa di espulsione, che riferisce di aver perso la mano sinistra per un incidente sul lavoro avvenuto mentre era impiegato come muratore in nero presso una ditta a Milano, dove vivono la moglie e i suoi due bambini. Sarà forse legale, ma è giusto e umano separare così una famiglia? È questa la considerazione che una comunità esprime nei confronti di chi lascia la salute e non di rado la vita nei nostri cantieri, per erigere le nostre case e le nostre Fiere, con un salario di 2 o 3 euro all'ora, taglieggiato dai caporali e perseguitato da una burocrazia a volte cieca e distratta? Come quella che ha portato in via Corelli J. Z., un marocchino che lavorava in Italia regolarmente da 8 anni, tanto da essere in procinto di acquistare la casa con un mutuo. Il 19 marzo si era recato presso la questura di Crema per ritirare il permesso di soggiorno ma il documento non era pronto; lo stesso era avvenuto il mese successivo, sino a che, il 21 aprile, il giovane veniva prelevato dalle forze dell'ordine e trasferito al centro di permanenza di Milano in quanto privo del permesso. Sono solo alcune delle vicende denunciate dai rari parlamentari che vogliono e riescono a entrare in via Corelli per verificarne le condizioni. Storie che dovrebbero, se non altro, indurre a immedesimarci, sia pure per un attimo, nel destino e nelle condizioni di coloro nei cui confronti spendiamo così facilmente la parola "legalità".
Di fronte alla facilità di giudizio, e di pontificazione, con cui a livello politico e di opinione comune si rischia di guardare al tema della legalità, talvolta un messaggio meno astratto arriva dagli stessi magistrati. Come nella sentenza con cui, il mese scorso, la terza sezione penale del tribunale di Milano ha mandato assolta una coppia di egiziani che aveva occupato abusivamente un alloggio popolare. Non rispondere ai bisogni (e diritti) primari e vitali di tanti cittadini più deboli può essere fatto ben più illegale e criticabile.