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Caso Bianzino, la corte d'appello riduce di sei mesi la condanna all'agente della penitenziaria
Francesca Marruco
16 aprile 2014

Dodici mesi di reclusione invece che diciotto come aveva stabilito la corte di primo grado. L'agente della polizia penitenziaria Gianluca Cantoro, a processo per la morte di Aldo Bianzino, deceduto in carcere a Perugia nell'ottobre del 2007, era accusato di omissione di soccorso e omissione d'atti d'ufficio.

Accolta richiesta difesa
Come richiesto dalla difesa dell'imputato, assistito dai legali Daniela Paccoi e Silvia Egidi, la corte d'Appello ha riquantificato la pena considerando l'assorbimento dell'accusa di omissione d'atti d'ufficio in quella di omissione di soccorso. In mattinata, prima che la corte si ritirasse in camera di consiglio, il sostituto procuratore generale Giuliano Mignini aveva chiesto invece la conferma della condanna a un anno e mezza inflitta in primo grado.

Conferma scontata
«La conferma della sentenza - dice l'avvocato Fabio Anselmo della parte civile - la ritenevo scontata, certo, rimane tutto il mio rammarico dovuto al fatto che dall'intero processo è rimasta fuori la contestazione della morte di Aldo Bianzino come sonseguenza dell'omissione di soccorso». Erano state, come dall'inizio di questo processo, soprattutto le parti civili, a sollecitare invece nuovi spunti investigativi. In particolare, l'avvocato proprio Fabio Anselmo, che assisteva la famiglia di Bianzino insieme a Massimo Zaganelli e Cinzia Corbelli, aveva chiesto - depositando anche una memoria - che il capo d'imputazione venisse tramutato in omicidio colposo.

Omissione ha causato morte certa
L'avvocato lo ha spiegato in maniera chiara nella sua memoria: «L'aver omesso la chiamata del medico per Bianzino (giuridicamente qualificata come omissione di soccorso e d'atti dell'ufficio) non poteva e non può - nel mondo reale e nel mondo del diritto - essere scissa dalla morte di Aldo Bianzino». «La negligenza dell'imputato, che ha omesso di chiamare i soccorsi dopo la richiesta del detenuto, ha privato la persona offesa di una possibilità di salvezza e, tecnicamente, ne ha cagionato la morte. Il fatto di non avere certezze sul successo delle operazioni dei medici, impedite dalla stasi dell'imputato, non significa e non può significare che manca il nesso causale tra l'omissione e la morte».

Le conclusioni di Fineschi
E così, anche se anche una seconda corte ha ritenuto di non dover contestare l'evento morte del detenuto mentre era in cella nel carcere di Perugia, la famiglia di Aldo Bianzino, e i loro avvocati non sono intenzionati a darsi per vinti ed è molto probabile che inizino a lavorare per chiedere una riapertura dell'indagine, a partire dalla consulenza del dottor Fineschi. Per il professore infatti, il consulente della parte civile, fermo restando la presenza dell'emorragia subaracnoidea che ha provocato la morte di Aldo Bianzino e la presenza della lesione al fegato, propone una lettura diversa da quella dell'insorgenza spontanea data dai periti del pm. Per Fineschi l'emorragia, che inizialmente fu di modesta entità perché non avrebbe inondato di sangue le parti più profonde del cervello, potrebbe anche essere stata provocata da un trauma: una torsione della testa, uno scuotimento, qualcosa che abbia causato una lacerazione e un'uscita di sangue.

La lesione al fegato
Per il medico questa affermazione è possibile vista l'assenza del rinvenimento dell'aneurisma stesso. Quanto alla lesione al fegato ha sostenuto, studi alla mano, che la stessa risulta classificata come molto rara nelle manovre rianimatorie. E generalmente correlata anche da altri traumi classificati come meno rari. Per Fineschi insomma la lesione al fegato, su un soggetto morto, con un versamento di sangue come quello di Bianzino solleva più di una perplessità. E anche per la famiglia che chiede ancora spiegazioni.