È una notte infinita, quella tra il 13 e il 14 giugno del 2008, lunga cinque anni e nove mesi, piena di racconti contrastanti, ricostruzioni di comodo, interrogativi senza risposta, prove scomparse. Ma anche di pezzi di verità che hanno resistito fino a oggi nei ricordi dei testimoni e negli audio di qualche telefonata. Tutto sarà rivissuto nel processo che cercherà di far luce sulla fine del "Pino", come amici e parenti chiamavano Giuseppe Uva, l'operaio di 43 anni morto in ospedale dopo due ore trascorse nella caserma dei carabinieri di Varese, in via Saffi, "trattenuto senza i presupposti di legge" da due carabinieri e sei poliziotti.
Due giorni fa, il Gip Giuseppe Battarino ha ordinato per loro l'imputazione coatta con accuse gravissime (omicidio preterintenzionale, arresto illegale, abuso di autorità, violenza privata), come chiedeva l'avvocato della famiglia Uva, Fabio Anselmo, e respingendo la richiesta di archiviazione della procura.
Quella notte Uva e il suo amico Alberto Biggiogero, ubriachi, vengono intercettati da due carabinieri (Paolo Righetto e Stefano Del Bosco), mentre spostano transenne in mezzo alla strada. "Sono scesi due carabinieri - ha denunciato Biggiogero - il più grosso si avvicinava a noi con uno sguardo stravolto e terrificante, inseguendo Giuseppe e dicendogli: "Uva, proprio te cercavo stanotte, questa non te la faccio passare liscia, te la faccio pagare".
Uva viene raggiunto. "Il carabiniere grosso scaraventa per terra Giuseppe, poi con estrema violenza in macchina". Poi ancora "pugni, calci e ginocchiate. Io urlavo di smetterla, in preda al panico". Arrivati in caserma, Biggiogero ricorda "un via vai di carabinieri e di poliziotti, mentre udivo le urla di Pino che echeggiavano per tutta la caserma assieme a colpi dal rumore sordo". Alberto chiama il 118. "Stanno massacrando un ragazzo".
Uva, scrive ora il gip Battarino, "è stato privato della libertà illecitamente dai due carabinieri ed è stato trattenuto per circa due ore senza necessità operative. E i poliziotti (Gioacchino Rubino, Luigi Empirio, Pierfrancesco Colucci, Francesco Focarelli Barone, Bruno Belisario, Vito Capuano) pur avendo l'obbligo di interrompere l'arresto illegale, hanno omesso deliberatamente di farlo". Di fronte "alle evidenti necessità di tutela dell'integrità fisica di Uva", manifestatasi in strada e "in forma grave in caserma, omettevano di affidarlo al 118", e di nuovo "hanno collaborato a ritardare i soccorsi" togliendo il cellulare a Biggiogero.
Ed ecco i tanti misteri dell'indagine. Perché i carabinieri portano i due in caserma? Perché lì confluiscono una gazzella e tre volanti, lasciando l'intera città senza pattuglie? Perché i soccorsi sono stati ritardati, se i militari hanno dichiarato che Uva era "in continuo stato di agitazione, si buttava giù dalla sedia, si divincolava, resisteva, dava calci provocandosi lesioni lievi ed escoriazioni"?
Agli atti dell'indagine anche le registrazioni delle telefonate tra caserma e 118. "Sono due ubriachi che abbiamo qui, ora gli togliamo i cellulari. Se abbiamo bisogno, vi chiamiamo noi". E due carabinieri che scherzano al telefono, non sembrano ricordare atti di autolesionismo: "Paolo era impegnato con Uva, stanotte. Uva fisicamente lo puoi tenere, è debole".
Solo alle 5 di mattina parte la richiesta di un Tso per Uva, che viene trasferito al reparto psichiatrico dell'ospedale di Circolo, dove i medici - gli unici andati a processo finora, poi assolti - lo sedano. Per il gip "è ipotizzabile la connessione casuale dell'illecito trattamento in caserma e di quanto ivi accaduto, con la morte di Uva, sopraggiunta per un evento aritmico terminale scatenato dall'estremo stress emotivo derivante dal contenimento fisico, da traumi auto o etero prodotti, da intossicazione alcolica".
Eppure, su quelle ore misteriose, Biggiogero è chiamato dal pm Agostino Abate solo il 26 novembre 2013, interrogato "con ostilità", "ridotto - scrive il gip - a relitto improduttivo". Un esame che "persegue la sparizione della morte di Uva dall'orizzonte cognitivo del fragile testimone" a cui il pm dice, tra l'altro: "Lei ha detto una bugia dietro l'altra".
Era stata la sorella di Giuseppe, Lucia Uva, a notare i lividi sul cadavere del fratello, e a farsi quelle domande a cui forse il processo darà una risposta. Chi ha provocato i segni sul corpo? Che fino hanno fatto gli slip che per il dirigente del posto di polizia dell'ospedale "erano intrisi di sangue"? Come si è formata la "vistosa macchia di liquido rossastro tra il cavallo e la zona anale"? C'è stata quella "estenuante difesa a oltranza effettuata anche con calci" in quelle ore trascorse senza motivo in caserma?