"Una cosa sono i film che avete fatto fuori, le dichiarazioni sui giornali dicendo che Giuseppe Uva è rimasto per ore in balìa dei carabinieri e dei poliziotti, un'altra cosa sono i dati oggettivi. Perché per cinque anni siete andati a dire cose non vere?".
Il pm Agostino Abate è furibondo. E per duecento minuti, tanto dura la deposizione di Alberto Biggiogero, ascoltato per la prima volta dalla procura di Varese a cinque anni e mezzo dalla morte di Giuseppe Uva, il magistrato incalza il testimone per convincerlo che quello che ha visto e vissuto nell'ultima notte di Uva sono menzogne. O meglio, non sono sovrapponibili ai "dati oggettivi": non è vero che i due amici rimasero per ore nella caserma dei Carabinieri di via Saffi a Varese, non è vero che Uva venne picchiato. Per oltre tre ore Biggiogero subisce quello che i legali della famiglia Uva definiscono "un trattamento umiliante teso alla infantilizzazione". Tanto che alla fine "è stato indotto a scusarsi" persino per aver detto ai giornalisti di avere udito Uva urlare "ahia".
Secondo il pm, sono i tabulati delle telefonate a ricostruire senza ombra di dubbio gli avvenimenti che si svolsero a partire dalle 3.30 del 14 giugno 2008, quando Biggiogero e Uva furono portati dai carabinieri nella caserma, fino alle 5. 30 circa quando Uva venne trasportato all'ospedale cittadino per un trattamento sanitario obbligatorio. Qui, poche ore dopo l'uomo morì. Nonostante non siano mai stati stilati verbali di fermo o di arresto, e nonostante l'amico Biggiogero possa testimoniare che uno dei carabinieri uscì dalla gazzella dicendo "Proprio te Uva stavo cercando, ora te la faccio pagare" - parole che il moribondo Giuseppe riferì anche alla psichiatra Enrica Finazzi - nella nuova richiesta di archiviazione dello scorso 31 dicembre il magistrato nega si trattò di arresto illegale.
Le "cose non vere" sono quelle che, a parere di Abate, la sorella Lucia Uva e Alberto Biggiogero hanno ripetuto chiedendo che venisse fatta giustizia sulla morte di Giuseppe. L'ombra di un pestaggio a opera degli agenti. Ma su quelle ore il pm, nonostante tre gip gli avessero ordinato di fare chiarezza proprio sul tempo passato in caserma, non ha mai indagato. Andando incontro a gravi incolpazioni da parte del ministero della Giustizia e della procura generale della Corte di Cassazione, due procedimenti disciplinari indipendenti che accusano proprio Abate non soltanto di aver accantonato inspiegabilmente le indagini sugli otto operatori dei Carabinieri e della Polizia, ma anche di aver tolto a questi ultimi la possibilità di difendersi dalla eventuale pesantissima accusa di aver cagionato la morte di Giuseppe Uva.
Le "cose non vere", scrive nell'atto di incolpazione la Procura generale della Cassazione, sono quelle pronunciate paradossalmente da Abate, che per esempio durante una udienza del processo contro lo psichiatra Carlo Fraticelli spiegò di avere già svolto le indagini preliminari a carico degli agenti ("contrariamente al vero").
Ci sono altre "cose non vere" sostenute dal magistrato e finite nel lungo atto di incolpazione trasmesso al Csm a fine novembre insieme con il procedimento disciplinare voluto dal ministero della Giustizia. Le manette, per esempio. Nel 2010 Abate convoca in procura Luigi Manconi, non ancora senatore Pd ma attivamente al fianco di Lucia Uva con l'associazione "A buon diritto" nella richiesta di indagini approfondite. Un interrogatorio aspro durante il quale il magistrato reagisce con rabbia quando Manconi menziona l'uso delle manette nei confronti di Uva. Il pm lo scriverà anche nell'istanza di archiviazione dello scorso dicembre: nei confronti dell'uomo non furono "mai" usati strumenti di contenzione. Purtroppo è una menzogna: sono gli stessi agenti nella relazione di servizio a scrivere che a Uva sono state applicate le manette.
È questo, secondo la Procura generale, un esempio dei "comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato" messi in atto dal magistrato di Varese. Comportamenti che comprendono una "condotta ingiustificatamente aggressiva e intimidatoria" fino alla derisione - Abate arrivò a soffiare in faccia a un membro del collegio dei periti e uno di questi ammise di sentirsi intimidito.
L'interrogatorio a Biggiogero è del 26 novembre 2013, pochi giorni dopo l'incolpazione formale da parte del ministero, e dunque non rientra nel procedimento disciplinare. Per il magistrato Biggiogero è un teste "del tutto inattendibile" fin dal giorno successivo alla morte di Uva. E durante l'interrogatorio ripete il motivo: l'uomo quella notte era "ubriaco", incapace di avere una cognizione spazio-temporale, tossicodipendente, invalido al 100% per una malattia psichiatrica. La maggior parte dei duecento minuti del faccia a faccia sono impiegati da Abate proprio per convincere il testimone di aver sentito urlare l'amico in caserma non un'ora ma "al massimo sette minuti" prima che lo stesso Biggiogero alle 3:57 chiamasse di sua spontanea volontà il 118. Alle 4:11, e cioè venti minuti dopo l'arrivo in caserma dei due amici, arrivò la guardia medica per visitare Uva insieme con il padre di Biggiogero.
Secondo i legali Fabio Anselmo, Alessandra Pisa e Fabio Ambrosetti, quello che il magistrato ripete come "dati oggettivi" sono in realtà interpretazioni. Come scrivono nell'opposizione all'istanza di archiviazione, i legali non sono mai riusciti a ottenere da Abate l'acquisizione e il sequestro dei tabulati telefonici prima che andassero distrutti, per poter meglio ricostruire le responsabilità degli agenti. E poi: Biggiogero e Uva arrivarono alla caserma di via Saffi almeno dieci minuti prima di quanto sostenuto dal pm - lo prova una fonoregistrazione - mentre la guardia medica appuntò le 4:11 non come orario di arrivo dai Carabinieri bensì come "orario di chiamata". Giunse da Uva, rimasto a questo punto in mano agli agenti almeno un'ora, verso le 4:30 e cioè venti minuti dopo la convocazione: lo spiegò anche alla pm Arduini che raccolse la sua deposizione, e lo confermano le prime relazioni di servizio di due agenti, poi corrette.
Non solo: durante un interrogatorio del 2010 al capo della squadra mobile di Varese, Dalfino, è lo stesso Abate a contestare come mai "per almeno due ore" tre volanti della polizia fossero rimaste occupate alla caserma dei Carabinieri senza produrre una relazione dettagliata.
Cosa accadde allora Giuseppe Uva in quei sessanta minuti da solo con carabinieri e poliziotti? Proprio per questo la Procura generale incolpa Abate di aver violato tre diversi articoli del codice di procedura penale (326, 335, 358) poiché non ha svolto "le indagini preliminari necessarie all'esercizio della azione penale", né ha curato gli accertamenti obbligatori, né ha curato il registro dei fascicoli contenenti i capi di imputazione e i nominativi degli indagati. Al pm viene imputata anche "la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile". Tutto ciò, scrive sempre la Procura generale, aggravato dal fatto che si trattava dell'indagine sulla morte di una persona come conseguenza di un sospetto reato, violando dunque il Convenzione dei diritti fondamentali dell'uomo che imporrebbe "indagini tempestive" prima che avvenga la prescrizione ed esponendo in questo modo il ministero della Giustizia al risarcimento semmai la Corte europea di Strasburgo un domani dovesse essere chiamata a esprimere un giudizio sulla vicenda Uva.
Le "cose non vere" comprendono anche gli slip di Giuseppe Uva. Sempre durante l'interrogatorio a Manconi, Abate afferma che il defunto non portava gli slip perché era un uomo trasandato. "La vita di Uva era priva di riferimenti, di supporti famigliari e di ordine personale, era dedito alle droghe e all'alcol", scrive il magistrato nell'ultima richiesta di archiviazione. Eppure l'infermiere Giovanni Rossi durante una udienza al processo Fraticelli disse chiaramente di aver tagliato gli slip all'uomo e di averli gettati: dunque esistevano.
Ugualmente Abate spiega a Biggiogero che le lesioni visibili sul cadavere di Uva erano state provocate da una testata che lo stesso Uva avrebbe dato contro il muro . "Lo testimoniano i due medici del 118", afferma il pm. Ma di questa sicurezza non c'è traccia nei verbali. Uno dei medici intervenuti dice soltanto di avere udito un tonfo sordo ma di non esserne stato testimone oculare.
"Destano qualche preoccupante sospetto l'impegno, lo zelo e l'incessante sforzo del pm per evitare il processo agli agenti" scrivono i legali della famiglia Uva nell'istanza di opposizione all'archiviazione. Ma la Procura generale trova molto sconvenienti anche "le considerazioni volte a polemizzare con i famigliari della vittima e con i consulenti delle parti offese" che avrebbero secondo Abate non chiesto giustizia ma "distorto la ricostruzione dei fatti" e inventato "uno stato immaginario di costrizione, che si è rivelato inesistente". E allora, incalzano i legali, perché del trattenimento di Uva in caserma per almeno un'ora non esiste nemmeno un verbale?
Il Csm non ha ancora fissato una data per la convocazione del magistrato varesino. Secondo la legge che regola gli illeciti disciplinari dei magistrati, Abate potrebbe rischiare non solo una nota formale di biasimo ma anche la perdita temporanea dell'anzianità e il trasferimento.
Nel frattempo Lucia Uva, la sorella che si è sempre battuta per fare chiarezza, attende l'udienza nella quale il gip potrà accogliere l'archiviazione chiesta da Abate per gli otto agenti coinvolti quella notte, oppure rinviarli a giudizio con imputazione coatta per omicidio preterintenzionale come invece richiesto dalle parti civili. Se questo dovesse accadere la data della prescrizione (14 giugno 2014) verrebbe allontanata e, a sei anni di distanza, un processo verrebbe celebrato per chiarire le reali responsabilità sulla morte di Giuseppe Uva, operaio edile, 43 anni, incensurato, portato in caserma per aver spostato delle transenne.