Un detenuto che muore nelle mani dello Stato riguarda l'intera società civile. E lo Stato deve a tutti una risposta.
Sono trascorsi quattro anni e un processo di primo grado dalla morte di Stefano Cucchi, ma sul detenuto spentosi in un letto del reparto carcerario dell'ospedale Sandro Pertini manca ancora la verità. I suoi familiari continuano a cercare, chiedere e sperare, consapevoli che col passare del tempo la strada si fa sempre più stretta e in salita. Però non si arrendono. "Vorrei capire, vorrei sapere, vorrei anche perdonare, ma non ci riesco", ripete Giovanni Cucchi, padre di Stefano. Ammettendo di non poterci riuscire "finché qualcuno non mi dirà che cosa è veramente successo dentro quelle quattro mura".
I genitori e la sorella di Stefano hanno deciso, quattro anni fa, di trasformare il loro lutto da privato in collettivo, per coinvolgere tutti nella ricerca della giustizia. Decidendo da subito che fosse un affare di tutti. Perché un prigioniero che muore nelle mani dello Stato, a una settimana dall'arresto e dall'inizio della custodia preventiva, non può essere un affare della vittima e della sua famiglia, bensì dell'intera società civile. Di tutti i cittadini di un Paese in cui non è tollerabile che accada quel che è accaduto a Cucchi. Ai Cucchi.
La mattina del 22 ottobre 2009 la signora Rita, mamma di Stefano, trovò alla porta di casa un carabiniere venuto a notificarle l'autopsia disposta sul cadavere del figlio, e invitarla a nominare un perito di fiducia. Seppe così che Stefano era morto. Da sette giorni aveva avuto solo la notizia dell'arresto per il possesso di qualche dose di droga, e successivamente che, in attesa del processo, l'avevano ricoverato per imprecisati problemi di salute. Mai spiegati da alcuno, nonostante le pressanti richieste.
Quella stessa mattina, dopo giorni di tentativi andati a vuoto, papà Giovanni era andato a ritirare il permesso di fare visita al figlio; la burocrazia glielo concesse dopo che era morto. Anziché recarsi all'ospedale lui, sua moglie e la figlia Ilaria dovettero andare all'obitorio.
È cominciata allora la battaglia di quel che resta della famiglia Cucchi, per la verità prima ancora per la giustizia. Che non s'è certo conclusa dopo che la corte d'assise ha distribuito molte assoluzioni e poche, blande condanne piuttosto. Un verdetto che ha scontentato tutti (a parte il gruppo degli assolti, peraltro non usciti definitivamente dal processo), e che s'è bloccato davanti alla domanda rimasta senza risposta: chi ha picchiato il detenuto trentunenne dal fisico debole ma sano, fino a ridurlo nelle condizioni in cui è morto, senza che nessuno gli abbia garantito le cure necessarie a non morire?
Stefano chiedeva di parlare con un avvocato o un operatore della comunità terapeutica da cui era già passato, ma nessuno s'è preoccupato di chiamarli. E dalla notte in cui fu arrestato, tanti errori e negligenze hanno contribuito alla situazione paradossale nella quale s'è spento. Ancor prima delle colpe giudiziarie assegnate o negate. Tutto questo è "l'ingiustizia Cucchi", che quattro anni dopo non possiamo dimenticare. Per non lasciare sola la famiglia con la sua ansia di verità.
Comunque sia andata, responsabile della morte di Stefano è lo Stato; che appartiene a tutti, e a tutti deve una risposta.