Rete Invibili - Logo
Giuseppe Uva, il gip: «Non si archivi. Indagare su carabinieri»
Ercole Olmi
9 ottobre 2013

«Il cittadino Giuseppe è stato privato della libertà mediante un trattenimento prolungatosi per oltre due ore senza necessità in un presidio di forze di polizia e in mancanza dei presupposti di legge». Il gip di Varese, Giuseppe Battarino, ha ordinato alla Procura nuove indagini nei confronti degli 8 agenti di polizia e carabinieri accusati di lesioni colpose in relazione alla morte di Giuseppe Uva, respingendo la richiesta di archiviazione presentata dal pm Agostino Abate.

Giuseppe morì nel giugno 2008 all'ospedale di Varese, dopo aver trascorso parte della notte nella caserma dei carabinieri che lo avevano fermato ubriaco per strada. Secondo l'unico testimone, mai sentito dal pm, i carabinieri conoscevano Uva e uno di loro esclamò che stava cercando proprio lui.

Una volta in caserma, il teste sentì le urla strazianti dell'amico e provò a chiamare il 118 che però fu depistato dai carabinieri per essere richiamato dagli stessi tutori dell'ordine solo più tardi per condurre l'uomo nell'ospedale dove sarebbe morto.

Il pm ha sempre provato a condurre un'inchiesta su un caso di malasanità piuttosto che accendere i riflettori sulla possibilità di un contegno violento da parte di polizia e carabinieri ma il 23 Aprile del 2012 il medico Carlo Fraticelli fu assolto dall'accusa di aver provocato la morte per somministrazione di un farmaco sbagliato. Sentenza poi confermata in appello. Per la sorella Lucia, cui toccò il riconoscimento del cadavere e che si rese conto dei segni delle sevizie: «I responsabili vanno i ricercati in caserma e in quello che successe là dentro».

Nel respingere l'archiviazione e nel disporre nuove indagini il giudice per le indagini preliminari riprende quanto già specificato dagli altri giudici: «Le cause della morte vanno ricercate nelle condotte delle persone presenti in caserma quella notte, è una morte per la quale doveva sorgere immediatamente il sospetto di un reato, il valore della libertà personale è prevalente su ogni altra esigenza pubblica o privata (Giuseppe Uva non fu arrestato, non c'era alcun motivo per farlo) e nessun può essere privato della libertà personale se non in forza di una legittima detenzione».

«La notte del 14 aprile 2008 - si legge ancora nella sentenza del Gip - si è verificato un fatto di probabile rilevanza penale in una strada del centro di Varese, l'accompagnamento in caserma è ingiustificato, siamo di fronte ad un cittadino che aveva bisogno di assistenza, mentre il 118, chiamato dall'amico Alberto Bigioggero, viene respinto dai carabinieri. Uva viene ricoverato senza il suo consenso dopo una straordinario patimento fisico subito nel corso della privazione della libertà». Ma il pm Abate ha preferito querelare la sorella di Giuseppe e i giornalisti che si sono azzardati a guardare il mondo con i suoi occhi.

Una volta per tutte, conclude il Gip: «La morte di Giuseppe Uva non è riconducibile ad errata somministrazione di farmaci, sul suo corpo vi erano tracce diffuse di lesioni, ci fu un'importante effusione di sangue proveniente dalla zona anale, la morte è conseguita ad un'aritmia derivante dal contenimento e dallo stress fisico e i traumi subito sono concause del decesso».

Si domanda Filippo Vendemmiati, uno dei cronisti più attenti di vicende come questa: «Nuove indagini dunque entro il 31 dicembre 2013, ma da parte di chi? Dello stesso pubblico ministero Agostino Abate, fino a oggi unico titolare dell'inchiesta? Si potranno accertare in poche settimane i pezzi mancanti da anni?». In effetti il problema, in questa vicenda, sembra l'inamovibilità di Abate di fronte alle ripetute sconfessioni ricevute dalle sentenze. Non è la prima volta, infatti, che gli viene chiesto di schiarire l'opacità che avvolge quella caserma. E il dubbio è che si tenti di dilatare i tempi, con una sorta di melina, fino alla prescrizione. Tutto ciò, secondo gli osservatori, anche grazie agli appoggi che potrebbe avere alla procura generale di Milano dove a decidere sull'avocazione del pm c'è Laura Bertolè Viale, collega di corrente con Abate nel sindacato dei magistrati, l'Anm, e nota per la partecipazione alla controversa vicenda Sofri.

Per Lucia: «Forse inizierà un percorso di giustizia per mio fratello. Forse. Ma quanta sofferenza. Quante energie. Quante porte sbattute in faccia. Ora uno spiraglio di speranza. Finalmente! Compatibilmente con i termini della prescrizione ormai prossimi. Quanta fatica per poter aspirare a qualcosa che secondo la nostra Costituzione dovrebbe essere dovuto e scontato. Ma in che mondo viviamo?». In aula, anche stavolta, attivisti di Acad, l'associazione contro gli abusi in divisa che sta per lanciare un numero verde per l'intero territorio nazionale.