Rinvio a giudizio per le persone che hanno denunciato la morte in carcere di Giuseppe Uva, a cominciare dalla sorella, e archiviazione per carabinieri e poliziotti. È la richiesta dei pm di Varese. Secondo i quali l'uomo non fu ammazzato di botte in caserma ma si ferì da solo
Per la morte di Giuseppe Uva carabinieri e poliziotti potrebbero non essere mai processati. Davanti a un giudice, invece, potrebbero finirci sua sorella Lucia, lo scrittore e documentarista Adriano Chiarelli, l'inviato delle Iene Mauro Casciari e il direttore di Italia Uno Luca Tiraboschi. La richiesta di rinvio a giudizio per i secondi e di archiviazione per i primi è arrivata dal Gip di Varese lo scorso 28 giugno, firmata dai pm Agostino Abate e Sara Arduini. Per i due investigatori «la prova che non sono stati commessi determinati fatti costituiscono allo stesso tempo elemento costitutivo dei reati di diffamazione contestati». Cioè, visto che non sono stati Paolo Righetti, Stefano Del Bosco, Gioacchino Rubino, Luigi Empirio, Pierfrancesco Colucci, Francesco Barone Focarelli, Bruno Belisario e Vito Capuano a stuprare e a massacrare di botte in caserma Giuseppe Uva fino a provocarne la morte in ospedale qualche ora dopo, chi ha sostenuto queste tesi è da considerarsi un diffamatore. Da qui la doppia richiesta avanzata dalla procura della cittadina lombarda.
Il fascicolo da cui è stato stralciato questo segmento d'indagine è il numero 5509, lì dentro sono ricostruiti i fatti avvenuti nella notte tra il 14 e il 15 giugno del 2008, quando Giuseppe Uva e Alberto Biggiogero vennero fermati da una pattuglia dei carabinieri e portati nella caserma di via Saffi. Erano le 2 e 55. Alle 5 e 41 un'ambulanza con a bordo Giuseppe arriva al pronto soccorso. In mezzo c'è il mistero. L'unico processo che si è celebrato ha scagionato da ogni accusa il dottor Carlo Fraticelli, con il teorema della morte per malasanità portato avanti dal pm Abate che è crollato sotto i colpi di una sentenza decisa in un quarto d'ora, contro una requisitoria che di ore ne durò cinque. Non solo, il giudice Orazio Muscato ordinò anche il ritorno degli atti in procura per capire cosa avvenne tra il fermo dei due e l'arrivo all'ospedale di Uva. Ecco, il risultato è questo: i pm chiedono l'archiviazione per i poliziotti e i carabinieri coinvolti. Con tante scuse. Non solo, nella richiesta di Abate e Arduini ricorrono spesso frasi e toni di sfida nei confronti dello stesso Muscato, in un quasi inedito scontro tra magistratura inquirente e giudicante, tutto su carta bollata: «In sintesi - si legge - il giudice prima ha impedito che si accertasse in aula quanto accaduto, poi ha accettato acriticamente che i periti concludessero con ipotesi basate su un presunto mistero su quanto accaduto in caserma; infine ha ordinato una trasmissione degli atti perché la procura acquisisca le prove». Tutto questo per dire che Giuseppe Uva «fu trattato in modo idoneo e non lesivo (in caserma, ndr); non fu limitato nella sua libertà se non nei termini minimali necessari, quali indurlo a farlo salire in vettura per accompagnarlo in caserma, farlo soggiornare in una stanza (senza alcun vincolo fisico-costrittivo) in attesa che si calmasse e, dopo poco tempo anche sotto il controllo sanitario con l'arrivo di due medici. Non ha subito lesioni fisiche né trattamenti comunque lesivi e/o pericolosi».
Ma allora, i segni delle botte? I lividi? Le escoriazioni? I traumi rilevati dalle perizie? Il sangue sui vestiti? «Giuseppe Uva in più momenti ha tirato calci contro la scrivania e i mobili, ha volutamente picchiato la testa contro una vetrata, ha tirato pugni contro i mobili e minacciato tutti i presenti intimando loro di non avvicinarsi». Non basta: «Le abitudini di vita di Giuseppe Uva purtroppo spiegavano la scarsissima igiene personale e le condizioni degli abiti che indossava. Sono vicende umane, tristi ma ricorrenti, significative per l'indagine solo perché dimostrano che le affermazioni delle parti offese non possono di certo basarsi sulla conoscenza vera di come vivesse il fratello, del suo rapporto con l'alcol, dei suoi comportamenti e del suo stato complessivo di salute».
Lucia Uva, insomma, non vedeva spesso suo fratello, quindi non poteva sapere come vivesse. Così adesso, in un ribaltamento degno dello Ionesco più apocalittico, sul banco degli imputati ci finiranno proprio coloro che più di tutti hanno cercato la giustizia. A risultare lesive dell'onore e della dignità degli uomini in divisa sono state alcune frasi di Lucia durante un servizio delle Iene, agli atti: «Me lo hanno inculato, cazzo» riferendosi a un presunto stupro in caserma ai danni del fratello. Più altre parole contenute nel documentario sul caso, «Nei secoli fedele» di Adriano Chiarelli e Stefano Menghini. La voglia di parlare, da parte loro, è poca. Ma, con il loro avvocato Fabio Anselmo, annunciano battaglia. Alla prossima udienza.