La colpa è dei medici, Stefano Cucchi è morto perchè non hanno saputo curarlo come si doveva. Il resto, tutto il resto, per la Terza Corte d'Assise non conta nulla. Anzi, di più: non c'è nulla, perché il fatto non sussiste. Omicidio colposo, non più volontario, come si ipotizzava prima che la corte derubricasse l'ipotesi di reato dall'abbandono terapeutico alla colpa medica, categoria dello spirito, prima che del codice penale, dove rientra tutto e il contrario di tutto, ed è in fondo l'unico motivo per cui finisce a volte nei guai chi porta un camice. Questo c'è scritto sulla sentenza che ha condannato un primario e cinque dottori e ha lavato tutte le accuse di tutti gli altri. Assolti gli infermieri, assolte le tre guardie carcerarie che secondo i testimoni, altri detenuti, picchiavano Stefano come fosse un pupazzo di pezza. Stefano che ai funerali lo avevano portato via con un cartoncino distribuito ai presenti: "Non mi uccise la morte ma due guardie bigotte, mi cercarono l'anima a forza di botte". Di botte, però, non parla la sentenza. Delle botte che hanno annerito di ematomi, lividi ed ecchimosi il corpo di Stefano non c'è traccia nel ragionamento dei giudici e nelle loro conclusioni. Le botte, quelle botte silenziose, tra grida soffocate e porte sbattute, lasciano la loro scia dolorosa nelle lacrime della famiglia. Nelle parole della mamma, Rita Calore: "Me l'hanno ucciso un'altra volta". O in quelle della sorella Ilaria: "Pene ridicole". Nell'aula bunker di Rebibbia, a metà pomeriggio, la gente è inferocita e urla "assassini". "Dov'è la giustizia, mi fate schifo" urlano altri. La tensione per un processo maratona di 45 udienze, 120 testimoni, un plotone di esperti e consulenti. Una rappresentazione imponente e dolorosa per un'altra delle morti bianche che hanno insanguinato gli ultimi anni. Un altro processo che lo Stato doveva celebrare a se stesso, e invece ha spostato su altri: "Non ha dato risposte", ha detto l'avvocato Fabio Anselmo che da otto anni ormai, dal delitto di Federico Aldrovandi, vive la guerra di un avvocato contro un apparato, e forse un intero sistema. Il dispositivo è lapidario: due anni di reclusione per il primario dell'Ospedale "Pertini", Aldo Fierro. Un anno e quattro mesi ai suoi colleghi, Stefania Corbi, Silvia Di Carlo, Flaminia Bruno e Luigi Preite De Marchis. Condanna a 8 mesi per il medico Rosita Caponetti. Per tutti, naturalmente, c'è la sospensione condizionale della pena, ma anche la condanna (tolta la Caponetti) al risarcimento in solido delle parti civili. Assolti gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli, Domenico Pepe e gli agenti della polizia penitenziaria Nicola Menichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici, accusati a vario titolo di abbandono di incapace, abuso d'ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni e abuso di autorità. "La fine di un incubo" sospira Minichini a nome dei colleghi, mentre gli infermieri appena prosciolti ribadiscono che hanno fatto tutto il possibile per salvare la pelle di Stefano. Che pesava 37 chili, quando è morto, e che secondo i periti della Corte è deceduto per "inazione", cioè sostanzialmente per denutrizione: "Sarebbe bastato acqua e zucchero", disse uno degli esperti in una delle udienze. Stefano che era un cadavere violaceo di botte, sotto al lenzuolo dell'obitorio, ma non l'avremmo mai potuto vedere e sapere, se un generoso addetto del servizio non avesse rubato qualche immagine. La sentenza che getta nella disperazione la famiglia e fa inferocire la gente, però, piace alla pubblica accusa. "La Corte d'Assise ha confermato, come ha sempre sostenuto la Procura sin dall'inizio, che la morte di Stefano Cucchi è dovuta all'incuria dei medici del Pertini. E poco importa che sia cambiato il reato. Quanto all'assoluzione dei tre agenti della polizia penitenziaria, cui avevamo attribuito le lesioni personali aggravate, va detto che è stata fatta ai sensi del secondo comma dell'articolo 530 del codice di procedura penale, l'equivalente della vecchia formula dell'insufficienza di prove" dichiara Vincenzo Barba, pm insieme a Francesca Loy. La sentenza, però, non dice chi ha picchiato Stefano. E come nel caso Uva, arrestato dai carabinieri a Varese e morto la mattina dopo all'ospedale, cancella tutto quello che è successo tra l'arresto e il ricovero. Nel caso di Giuseppe come in quello di Stefano, a Varese come a Roma, in una caserma dell'Arma come nei sotterranei di un tribunale o in un carcere. E se spariscono dall'indagine o dall'accusa tutti quelli che c'erano, carabinieri o agenti penitenziari, sparisce lo Stato. E restano solo i medici. Se non fosse una coincidenza, sembrerebbe uno schema.