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Caso Cucchi, stai a vedere che è colpa di Stefano
Checchino Antonini
8 aprile 2013

Continua a chiedersi, Ilaria, chi siano gli imputati nel processo per la morte di suo fratello Stefano.

La requisitoria dei pm Barba e Loy, a due anni dall'avvio del processo, sembra dare corpo ai timori dei pm del caso Diaz. Dissero questi, a Genova, che processare una divisa è come processare uno stupratore. Perché in entrambi i casi si tende a colpevolizzare le vittime. E, magari, anche i loro familiari.

Eppure il processo è ad altre12 persone: medici e infermieri dell'ospedale Pertini più agenti della polizia penitenziaria. I secondini (Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici) devono rispondere di lesioni personali aggravate. Aldo Fierro responsabile del reparto protetto del Pertini, e i medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi Preite de Marchis e Silvia Di Carlo, insieme agli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe sono accusati di abbandono di persona incapace. I camici bianchi devono rispondere anche di favoreggiamento e omissione di referto. Rosita Caponetti, una dirigente dell'ospedale Pertini, è accusata di falso e abuso d'ufficio. In aula sono presenti i genitori di Stefano Cucchi, il padre Giovanni e la madre Rita Calore, costituiti parte civile nel procedimento insieme alla sorella Ilaria. Per tutti sono state chieste condanne a pene comprese tra i due anni e i sei anni e otto mesi di reclusione. La sentenza entro il 22 maggio.

Nell'aula bunker di Rebibbia sono risuonate continue allusioni. Per esempio al fatto che la notte in cui fu arrestato Stefano nessuno avesse detto che il trentunenne aveva anche un'altra casa a Morena per nascondere la droga. Sembra ignorare Barba che la "roba" la trovò proprio Giovanni dopo la morte di suo figlio e la consegnò a chi indagava. Nessuna indagine sarebbe stata fatta su chi l'abbia data a Stefano.

Anche perché il piano sembra quello di dimostrare che sia «morto di fame e sete», insomma, dopo un dimagrimento di oltre dieci chili in poco più di cinque giorni di degenza nel reparto penitenziario dell'ospedale Pertini. «Non c'è nesso di casualità tra le lesioni e l'evento conclusivo, il decesso», insiste la Loy. Le botte non c'entrano? E' quello che hanno sempre cercato di dimostrare i pm incaricati del caso. Uno di loro si lamenta del clamore mediatico ma è lo stesso accusatore del "mostro" della Caffarella, un poveraccio rumeno sbattuto in prima pagina per uno stupro mai commesso. Chissà se gl'avrà chiesto scusa. Però quando il pm dice che «tutti volevano farsi grandi col caso Cucchi» il pensiero vola a Ignazio Marino che si spese per una commissione d'inchiesta in Parlamento salvo poi rifiutarsi - dopo la decisione di correre alle primarie romane - di venire a questo processo a spiegarne le conclusioni.

Barba si dilunga sulla «lotta impari» per proteggere un teste dall'assalto della stampa. Il processo sarebbe «stato difficile - ha detto il pm - anche a causa di varie rappresentazioni dei fatti che sono state portate fuori dal processo. I mass media hanno influito sull'opinione pubblica. C'e' chi ha voluto dare una rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo. L'impatto mediatico è divenuto sempre più invasivo, ci sono state ben due commissioni che hanno indagato contemporaneamente a noi e con evidenti interferenze. Ci sono state svariate interrogazioni parlamentari fino a numerosi tentativi di depistaggio da parte di personaggi che noi abbiamo inserito nella lista testimoniale».

Ma anche le allusioni e le lamentazioni sulla stampa non esimono il magistrato dall'ammettere che «Stefano Cucchi è stato picchiato in stato d'arresto dalla penitenziaria che doveva garantirne la custodia». Il gambiano Samura Yaya, compagno di celle di Stefano, «è testimone oculare, è credibile. Vide l'esito dell'aggressione subita da Stefano nelle celle in attesa dell'udienza. Sentì quando cadde a terra e i calci subiti e vide che aveva una ferita sulla gamba». «Ci sono numerosissimi testimoni che dicono che Cucchi chiamava con insistenza le guardie. Forse era in crisi d'astinenza perché chiedeva con insistenza le medicine. Non si sa perché, nonostante queste insistenze arroganti, le medicine non gli furono somministrate nemmeno dai volontari di Villa Maraini presenti. Sappiamo che una detenuta è l'unica che ha dialogato con Cucchi per qualche minuto - ha detto ancora Barba - a lei disse che stava male, che voleva le medicine».

Ma Cucchi si sarebbe beccato quel trattamento «perché chiedeva, anzi pretendeva con l'arroganza che gli era propria qualcosa per alleviare l'astinenza dagli stupefacenti». Cucchi «è stato picchiato nelle celle di piazzale Clodio da parte degli imputati della polizia penitenziaria mentre era in attesa dell'udienza di convalida. E' stato ricoverato nella struttura protetta del Pertini pur non essendoci le condizioni e questo per nascondere quello che era avvenuto presso le celle del tribunale, per isolarlo dal resto del mondo». Ma alla fine è morto per colpa sua «a causa del gravissimo stato fisiologico e del suo rifiuto ad alimentarsi» cui si aggiunge «l'incuria del personale dei medici e degli infermieri con gravissime lacune, omissioni che rivelano un vero e proprio stato di abbandono del paziente che essendo detenuto non poteva scegliere da chi farsi curare».

Le botte non c'entrano: «Le lesioni che aveva Stefano Cucchi non sono neanche una concausa della sua morte ma hanno valenza occasionale», sostiene Francesca Loy. «Cucchi è morto perché non è stato alimentato, non è stato curato, rifiutava di cibarsi e nessuno dei medici s'è preoccupato di farlo nutrire». Ma quello dei medici «non è stato un comportamento colposo ma chiari indici di indifferenza nei confronti del paziente».

«Stefano Cucchi aveva una magrezza patologica simile ai prigionieri di Auschwitz», ha affermato l'altra metà della pubblica accusa, Maria Francesca Loy. La tesi è che Cucchi - che la sera prima dell'inizio del calvario era andato regolarmente in palestra - «non era un giovane sano e sportivo, era un tossicodipendente da vent'anni, con gravi conseguenze sugli organi». A Ilaria sembra di sentire Giovanardi, il padre della legge-killer sulla droga assieme a Fini. Continua a chiedersi, Ilaria, se sarà felice quel politico emiliano proibizionista, di sentire le medesime allusioni velenose sulla bocca della pm.

«Tutti noi possiamo immaginare le conseguenze di uso di droghe su un corpo umano per vent'anni - ha proseguito - assumeva ogni tipo di sostanza stupefacente, soffriva inoltre di crisi epilettiche dall'età di 18 anni. Dal 2001 al 2009 ha compiuto ben 17 accessi al pronto soccorso dell'ospedale Vannini, una media di due all'anno». «Davanti al rifiuto di nutrirsi del paziente maleducato, scorbutico e cafone i medici lo hanno lasciato perdere accettando il rischio che potesse morire. Il reparto della struttura protetta del Pertini è più esposto al rischio che il detenuto si rifiuti di nutrirsi. E' quindi una sindrome che doveva essere ben conosciuta dai medici che avrebbero dovuto saperlo trattare ed è evidente che non lo hanno fatto». «Trovo inqualificabile la requisitoria del pm che scambia le vittime con i carnefici - scrive Paolo Ferrero di Rifondazione che sarà a Varese fra 8 giorni a fianco di Ilaria e Lucia Uva - è indegno in uno stato di diritto che chi ha già dovuto soffrire per l'omicidio di un figlio o di un fratello si trovi nei fatti sul banco degli imputati».