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Stefano Cucchi, tutte le stranezze di una morte per fame
Giancarlo Castelli
9 aprile 2013

Alla fine sono risuonati anche i risolini in aula, oggi al processo Cucchi: erano quelli degli agenti penitenziari, gli stessi imputati di lesioni contro Stefano Cucchi, il giovane trentunenne che il 22 ottobre del 2009 morì in una cella del reparto penitenziario dell'ospedale Pertini dopo il suo arresto per pochi grammi di hashish avvenuto appena sei giorni prima, il 16 ottobre.

Risolini nervosi, forse, quelli di quegli agenti, probabilmente a causa della tensione per la requisitoria dei pubblici ministeri Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy.

Quello che li aveva fatti ridere a voce bassa era stata quella frase del pm Barba: "Samura Yaya (il detenuto gambiano testimone contro di loro per il pestaggio a Stefano Cucchi, ndr.) ha reso la sua testimonianza senza chiedere né ottenere nulla in cambio". E' difficile capire perchè ridessero. O forse no. Quello che sin dall'inizio si è dimostrato il cavallo di battaglia della Procura, quella testimonianza, promossa dai pm a pieno ritmo: "straordinaria!", "decisiva!", quella "pistola fumante" aveva da subito sollevato più di qualche dubbio.

Perchè in realtà, Yaya vide e sentì qualcosa dallo spioncino della sua cella. Ma guardando di lato dall'interno qualcosa che succedeva 180 gradi più in là. L'accusa si era da subito attaccata a questa (presunta) certezza non avendo altre carte in mano. Subito esclusi dall'indagine altri soggetti della vicenda Cucchi (i carabinieri che arrestarono il ragazzo e lo tennero in custodia per una notte intera furono interrogati soltanto come testimoni, scagionati anche dalla "parola d'onore" dell'allora ministro della Difesa, Ignazio La Russa), i pm Barba e Loy hanno dovuto spiegare una morte violenta attraverso una ricostruzione dei fatti che suscita diverse perplessità, un paio di perizie di anatomo-patologi di grido disposte dalla procura stessa, alcuni comportamenti più o meno fraudolenti compiuti da rappresentanti delle istituzioni e della classe medica e tante tante curiose coincidenze.

Come quella del dottor Marchiandi, dirigente del Prap, il Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria, accorso in fretta e furia fuori orario d'ufficio all'ospedale Pertini per firmare il foglio di ricovero del paziente Stefano Cucchi che nessun medico del reparto voleva accettare perchè "quel reparto non era idoneo per un paziente sofferente di acuzie".

Fu lo stesso Marchiandi (condannato in primo grado per abuso d'ufficio, falso e favoreggiamento e poi assolto in appello) a compilare il foglio di ricovero al pc dell'accettazione, chiedendo persino lumi sulla compilazione (particolari che ha ricordato il pm Barba nella requisitoria) perchè altrimenti il medico di turno, la dottoressa Rosaria Caponnetti mai e poi mai avrebbe accettato quel ragazzo inviato da Regina Coeli (e ricoverato al pronto soccorso dell'ospedale Fatebefratelli due volte in circa 24 ore dove due diversi dottori gli diagnosticarono fratture alle vertebre). "Uno zelo inusitato, qualcosa che non avevo mai visto prima, in cinque anni che lavoro in quel reparto del Pertini", aveva detto l'assistente capo, Salvatore Chessa.

Così come non c'erano mai state tante telefonate in un solo giorno tra lo stesso Marchiandi e il direttore del carcere di Regina Coeli, Mauro Mariani (come stabilì l'indagine di primo grado). Perchè tanta fretta, allora? Perchè tanto zelo per un piccolo spacciatore, uno tra i tanti che vengono arrestati quotidianamente? Sono state proprio queste le parole "accorate" del pm Barba che però, come in una crisi di identità, ha concluso poi che le eventuali percosse subite da Cucchi siano state in realtà lievi e certamente non hanno avuto alcun rapporto causale con la sua morte.

Che sarebbe sopraggiunta, invece, per "inanizione". Di fame e di sete, dunque. Accogliendo quindi la tesi dei consulenti nominati dal giudice del tribunale, Evelina Canale. Quelli che hanno paragonato la condizione del ragazzo alle epidemie di carestia del Medioevo o, per tornare ai giorni nostri, ai deportati di Auschwitz. Sarebbe morto di fame, quindi, per tre giorni al massimo di astinenza (neppure totale, peraltro) dal cibo.

Siccome sono gli stessi consulenti ad escludere gli ultimi due giorni di vita di Stefano dalla fase evolutiva della crisi di inanizione ("negli ultimi due giorni era ormai entrato in una sindrome di non ritorno"), c'era tempo fino al 20 ottobre, quindi, per intervenire. Se calcoliamo che Stefano venne arrestato poco prima della mezzanotte del 16 ottobre (la sera aveva cenato in casa dei genitori soltanto con una bistecca e dell'insalata perchè la pastasciutta l'aveva mangiata a pranzo) rimangono tre giorni. Tre giorni per ridursi come un prigioniero di un lager. Sembra strano.

Una evenienza esclusa anche da un consulente della difesa, un medico. Che però ha buttato là un'altra fantasiosa ipotesi: "Ci sono centinaia di migliaia di morti improvvise in Usa ogni anno". Ma questo, fortunatamente, la procura non l'ha voluto considerare.