"In nome del popolo italiano" è il ritornello giudiziario che accompagna la telecamera di Stefano Liberti e Gabriele del Grande mentre entrano nel Cie di Ponte Galeria a Roma, per raccontare le vite che stanno dietro alla macchina delle espulsioni dei "clandestini".
A due passi da casa nostra, per i Cie (Centro di identificazione ed espulsione) transitano ogni anno 11.000 persone, delle quali circa 4.500 vengono poi effettivamente rimpatriate con la forza. Luoghi di detenzione, con sbarre alte sette metri e filo spinato, sorvegliati giorno e notte da militari e agenti, dove si finisce perché privi del permesso di soggiorno. Anche senza essersi macchiati di alcun reato, come spiega una detenuta sudamericana: "Quando commetti un delitto, la condanna è giusta, però io non ho commesso nessun delitto".
Un carcere per innocenti. Vi sono rinchiusi padri di famiglia, lavoratrici con accento romano, ragazzi e ragazze nati in Italia. Al Cie di Roma ne arrivano ogni giorno. Dipinti come "diversi" - addirittura "criminali" da quando, nel 2009, la mancanza di documenti è diventato un reato -, si tratta invece di persone "normali". Basta un permesso di soggiorno scaduto, magari perché con la crisi si è perso il lavoro.
Nel breve documentario "In nome del popolo italiano", prodotto da Zalab con il sostegno di Open Society Foundations, i numeri del Viminale tornano ad essere uomini e donne in carne e ossa. Spiegano gli autori del documentario: "Siamo convinti che mostrare quei luoghi e ascoltare quelle voci significa rompere una definizione. E ribadire che nessun essere umano è illegale. Nemmeno quando lo dice una legge".
Nei Cie si vive sospesi: nel 2011, per decisione dell'allora ministro Maroni, la detenzione è stata prolungata da un massimo di sei a diciotto mesi. Il 60% dei detenuti non viene identificato né rimpatriato, ma rilasciato ugualmente senza documenti dopo diciotto mesi. Con un anno e mezzo di vita in meno. In nome del popolo italiano.
Vite senza fare nulla, come riassume una ragazza: "Resti tutto il giorno così, diventi vecchia. Fumiamo sigarette come pazzi, a pranzo mangiamo come pecore". Del resto, per motivi di sicurezza, nel Cie non è consentito agli "ospiti"- così sono paradossalmente chiamati i detenuti - neanche il possesso di un pettine. Fino al grottesco, come quando l'anno scorso, nei mesi più freddi e in camerate spesso sprovviste di riscaldamento, i detenuti di Ponte Galeria dovettero dar vita a una protesta, "la rivolta delle ciabatte", perché obbligati da un'ordinanza prefettizia ad indossare ciabatte al posto di scarpe con i lacci, per scongiurare pericoli di fughe.
Ha recentemente raccontato una ragazza bosniaca nel rapporto di Medici per i Diritti Umani sul Cie di Roma: "Le condizioni qui nel centro sono brutte perché la dignità di una donna non esiste. Nel bagno non c'è una porta. Un pettine non esiste e dobbiamo pettinarci con le forchette. D'inverno, faceva un freddo cane perché il riscaldamento è rotto e spesso manca l'acqua calda".
Come mostrano le immagini girate da Del Grande e Liberti, non mancano invece sbarre, lucchetti, recinti e ancora corridoi recintati. I racconti di chi esce dal Cie parlano poi di pestaggi non denunciati per paura, armadietti delle infermerie pieni di psicofarmaci, tentativi di suicidio, fughe e rivolte. Anche i dati confermano il quadro: a Ponte Galeria, il 50 per cento dei detenuti è sotto ansiolitici, senza prescrizione medica.
"Le condizioni nelle quali sono detenuti molti migranti irregolari nei Cie sono molto spesso peggiori di quelle delle carceri", "trattamenti degradanti e disumani", si legge nel "Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti" approvato a marzo dalla Commissione Diritti Umani del Senato.
I Cie sono uno dei luoghi più emblematici della cosiddetta "Fortezza Europa". E le storie raccontate da "In nome del popolo italiano" sono quelle che stanno facendo la storia, "la storia - ricorda Gabriele del Grande, sul suo blog Fortress Europe - che studieranno i nostri figli, quando nei testi di scuola si leggerà che negli anni duemila morirono a migliaia nei mari d'Italia e a migliaia vennero arrestati e deportati dalle nostre città. Mentre tutti fingevano di non vedere".