Come si può passare dal carcere al Cie e poi dal Cie al carcere, per anni, senza via di uscita? Essere straniero in posizione irregolare in Italia.
Trapani, Cie di Milo. Una scatola di sbarre alte e gialle, quasi tecnologiche, estranea all'ambiente, su una strada periferica vicino Trapani; un illegale carcere per migranti, che i cittadini fanno finta di non vedere: di non sapere. Il 30 maggio scorso una delegazione di giornalisti guidata dal Presidente della Fnsi, Roberto Natale, ha invece potuto varcare il cancello, anche se l'accesso è stato garantito a un unico "settore" della struttura, che può detenere fino a circa 204 uomini (ma con massimi di 270).
La maggioranza dei detenuti è di nazionalità magrebina: solo pochi gli sbarcati, mentre la grande maggioranza, circa il 90%, sono ex-carcerati, con il particolare di aver già scontato la loro pena in carcere; ma a fine pena, invece di tornare in libertà o di venire rimpatriati, sono trattenuti di nuovo, fino a 18 mesi, nel Cie.
Si chiama "detenzione amministrativa": ma significa privazione della libertà personale senza accusa né processo; per un unico reato, quello di avere il permesso di soggiorno scaduto. Peggio del carcere, senza le garanzie assicurate dal sistema penale: zero privacy né assistenza legale, niente libri né matite, persone isolate dal mondo esterno, cui il diritto alle cure e alla socialità viene negato: uomini ridotti a numeri e deportati da un Cie all'altro, per mezza Italia.
Mera prassi discrezionale del potere. Anche se alcuni immigrati vivono in Italia e hanno pagato le tasse per anni, sono sposati o convivono e hanno figli italiani; come Jamel, allenatore di cavalli, che in perfetto dialetto siculo racconta di vivere nella penisola da più di 33 anni e di avere una figlia nata e sposata con un italiano, mentre lui era chiuso lì; o Mohamed che dichiara che "qua non esiste mai la fine della pena, solo angoscia" e preferirebbe persino essere rimpatriato.
A Milo, però, per causa di precedenti penali (soprattutto per spaccio e traffico di stupefacenti), nessuno li vuole e il consolato del proprio paese di origine non agevola il rimpatrio (che avviene soltanto per meno della metà dei detenuti). Qua in terra trapanese "finiscono i casi più complicati, i casi limite", riconosce Tommaso Mondello, responsabile Immigrazione della Prefettura. Indesiderati tra due Stati: relitti del sistema.
A comprovare la totale inutilità del trattenimento nei Cie, allo scadere dei 18 mesi, a volte anche prima, il detenuto viene semplicemente "rimesso in libertà" con convalida del Giudice di pace, con l'ordine di lasciare il territorio nazionale.
Ovviamente, in assenza di documenti e con l'assurda normativa del "reato di clandestinità", finiscono di nuovo in prigione. "Nel corso degli anni vediamo tornare le stesse persone", osserva Edoardo Menghi, responsabile Immigrazione della Questura. Un folle, costoso e disumano circuito chiuso, senza alcuna utilità nel contrasto all'immigrazione irregolare.
Perfino le forze dell'ordine impiegate nel Cie di Milo sono a disagio; nel suo ennesimo comunicato, la Segreteria Nazionale del Siulp chiede d'urgenza di "incrementare il personale da impiegare, perché fare meramente sopravvivere una struttura indispensabile alle procedure finalizzate alla identificazione e alla espulsione degli extracomunitari significa soltanto uno spreco di energie, di uomini e di mezzi, senza pensare al mancato soddisfacimento della primaria esigenza di sicurezza".
Intanto, a marcire dietro muri, recinzioni, cordoni, ci sono persone internate sulla base di ciò che sono: "stranieri", "migranti", "non bianchi". Le sbarre di sei metri, da carcere di massima sicurezza peggio di quelle per la mafia, la sorveglianza 24 ore su 24 dalle forze dell'ordine, dicono l'evidenza: è mera reclusione sociale di soggetti presunti "pericolosi", da tenere chiusi come bestie, criminalizzare, piegare a quello che si vuole fare di loro. Un nulla. Salta la nuda verità alla coscienza: il Cie è la mera spazializzazione di un'ideologia razzista, perché solo un pensiero che nega l'umanità a questi uomini, li rende oggetti, può spiegare una tale volontaria privazione della loro libertà, una tale distruzione arbitraria della loro mente, vita e sogni.
Nessuno si degna di comunicare le "ragioni", ove ce ne fossero, ma almeno la durata della detenzione. E quel limbo senza senso, che toglie la dignità, produce solo autolesionismo ("mensilmente almeno 15 casi", spiega Giovanna Ottoveggio, medico della struttura), somministrazione di psicofarmaci, violenze, fughe (come i 130 scappati nei giorni scorsi). Come racconta un detenuto con le braccia e i polsi pieni di cicatrici e vistosi lividi: "la fuga è la nostra unica salvezza, per non impazzire".