"I fatti potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura": non ci sono giri di parole nelle motivazioni depositate ieri dal giudice Riccardo Crucioli per spiegare la sentenza pronunciata il 30 gennaio scorso al termine del processo contro cinque agenti penitenziari per le violenze commesse contro detenuti nel carcere di Asti (la "Abu Ghraib italiana", secondo un'espressione emersa nel corso del dibattimento).
"È provato al di là di ogni ragionevole dubbio - scrive il magistrato - che ad Asti vigevano misure eccezionali volte a intimidire e (...) punire i detenuti aggressivi (...) e a "dimostrare" a tutti gli altri carcerati che chi non rispettava le regole era destinato a pesanti ripercussioni".
Nelle 81 pagine della sentenza si parla di "violenze fisiche: i detenuti venivano malmenati da più persone che entravano nelle celle soprattutto di notte", a cui si aggiungevano "privazioni del sonno (i detenuti venivano picchiati soprattutto di notte), del cibo, dell'acqua e dei servizi", e "l'uso del tutto scorretto e disumano di celle "lisce" prive di materassi, di vetri e di caloriferi nel mese di dicembre".
Colpisce l'analisi dettagliata, precisa e implacabile sull'attendibilità delle testimonianze condotta dal giudice, che smonta le argomentazioni della difesa rovesciandole e mette in luce la rete di connivenze che ha reso possibili i fatti di Asti: "Gran parte del personale di servizio era a conoscenza di quanto avveniva nelle celle di isolamento: dal direttore Minervini al comandante Cotza ai medici (che non possono non aver visto le condizioni dei detenuti), passando per i dipendenti".
"Senz'altro si tratta di un impianto senza precedenti in processi su questo tema - commenta l'avvocato Simona Filippi dell'associazione per i diritti dei detenuti Antigone - che apre le porte a un'azione civile delle parti offese, ma soprattutto a un ricorso alla Corte Europea che potrebbe fare storia". Nessuno dei cinque agenti inquisiti tuttavia finirà in carcere: uno perché assolto, gli altri a causa della derubricazione del reato contestato - maltrattamenti (capo d'imputazione inadeguato perché attinente ai reati contro la famiglia) - in lesioni e abuso di autorità, capi per i quali non è possibile precedere per prescrizione o mancanza di querela.
Ma la derubricazione è dovuta, chiarisce il giudice, esclusivamente al fatto che il nostro Paese ha scelto di contravvenire, pur avendola ratificata, alla Convenzione delle Nazioni Unite del 1984, bocciando (nel giugno 2010) la legge che introduceva nel nostro ordinamento il delitto di tortura. Tuttavia, scrive Crucioli, "nel carcere di Asti negli anni 2004 - 2005 esisteva una prassi generalizzata di maltrattamenti verso i detenuti più problematici.
Due di essi hanno subito non solo singole vessazioni ma una vera e propria tortura, durata per più giorni in modo scientifico e sistematico. In un regime di connivenza con molti agenti della Polizia Penitenziaria e anche con molti dirigenti; coloro che non erano d'accordo venivano isolati o comunque additati come infami".
Quella che a molti era parsa una sostanziale assoluzione, festeggiata con gli abbracci degli imputati e degli avvocati, suona dunque anche come un circostanziato atto d'accusa contro una scelta politica le cui conseguenze, alla luce dei fatti di Asti, possono essere riassunte crudamente in questi termini: in Italia è possibile esercitare la tortura senza subire conseguenze legali, e questo è ciò che è accaduto ad Asti. Restano nelle orecchie le voci dei detenuti che hanno testimoniato: "Venivano tutti i giorni, venivano quattro volte al giorno, quindi io non è che posso dire quando veniva il momento". "Diceva, pregava per dire agli agenti di mettere almeno una coperta, qualcosa, perché non c'era niente, era nudo. E c'era freddo". "Ma questo funziona in tutte le carceri no? Solo che nessuno dice niente, nessuno lo vuole vedere questo".