La vicenda di Saidou Gadiaga, morto in carcere per un attacco d'asma, rivela l'inaccettabile stato delle nostre prigioni e di una legge xenofoba. Il suo "reato"? Non avere il permesso di soggiorno. Una cella di sicurezza, un video, l'immagine dell'agonia di un uomo: intorno a questi tre elementi si può ricostruire quella che, in un telefilm di Fox Crime, verrebbe definita la scena del delitto.
In questo caso non sappiamo se di delitto in senso proprio si possa parlare, ma certamente sappiamo che Saidou Gadiaga, senegalese trentasettenne, è l'ennesima vittima della giustizia italiana e, in particolare, delle sue leggi xenofobe. E uno dei tantissimi "morti di carcere". E, dunque, quella cella di sicurezza, quel video e quelle immagini ci danno l'opportunità di riflettere su molte questioni, a partire da quella più evidente dello stato in cui vengono custodite le persone sottoposte a fermo o ad arresto, nelle caserme o all'interno delle carceri. Gadiaga viene fermato il 10 dicembre 2010, perché sprovvisto di permesso di soggiorno valido e già raggiunto da un provvedimento di espulsione, al quale non aveva ottemperato. Da qui, tre considerazioni.
1) Innanzitutto c'è da dire che il fermo per l'identificazione si è protratto oltre le 24 ore previste (cosa che, notoriamente, avviene con una certa frequenza) nonostante Gadiaga avesse con sé i certificati medici del suo ricovero, da cui risultava chiaramente l'identità. Questa circostanza, appunto perché frequente, suscita preoccupazione in quanto segnala una completa sottovalutazione del valore che deve essere attribuito, per legge, alla libertà personale.
2) In una relazione di servizio dei carabinieri troviamo che il maresciallo contattò il pubblico ministero di turno per chiedere che Gadiaga, affetto da asma, venisse trasferito in carcere, dove c'è un presidio medico permanente. Il P.m. non lo ritenne necessario, rispondendo che, all'occorrenza, si sarebbe potuto richiedere l'intervento del 118. Quello stesso P.m. si è visto affidare le indagini per la morte dell'uomo, così come i carabinieri hanno avuto il compito di interrogare i soggetti coinvolti (compresi gli stessi carabinieri presenti quella mattina). Non sarebbe stato forse opportuno affidare tali compiti a qualcun altro?
3) Altro fatto importante è la presenza di quel video. La richiesta di archiviazione è arrivata nonostante l'esistenza di quelle immagini. E tuttavia, grazie a Radio Onda d'Urto di Brescia, che le ha fatte conoscere e che intorno a esse sta sviluppando una intelligente campagna di informazione, l'opinione pubblica è ora in grado di formulare un proprio giudizio. L'opposizione alla richiesta di archiviazione, comunque, si basa anche su altri elementi. Le dichiarazioni dei carabinieri, soprattutto per quanto riguarda la cronologia degli eventi, sono in contraddizione.
L'avvocato che con grande professionalità si sta occupando del caso, Manlio Vicini, ipotizza che le incongruenze di orario siano dovute alla volontà di accorciare il più possibile i tempi di progressione della crisi respiratoria di Gadiaga, al fine di escludere l'ipotesi di un ritardo nei soccorsi. Stessa spiegazione può essere data alla dichiarazione dei carabinieri che la morte sarebbe avvenuta in ospedale. Circostanza incontrovertibilmente smentita dagli operatori del 118, i quali affermano che, al loro arrivo in caserma, Gadiaga era già deceduto.
In ultimo, c'è la testimonianza del vicino di cella, che dichiara di essersi svegliato a seguito delle richieste di aiuto di Gadiaga, richieste rimaste inascoltate per "15/20 minuti". Il testimone non è stato ritenuto attendibile nella sua ricostruzione perché in stato di dormiveglia, ma il buon senso dice che lo stato di dormiveglia avrebbe dovuto, eventualmente, accorciare i tempi percepiti dal testimone, non allungarli.
In ogni caso, sollecitato sul punto, il testimone ha negato che potesse trattarsi di quei soli "3 minuti" indicati dai carabinieri. In buona sostanza la tesi portante della richiesta di opposizione all'archiviazione si basa sull'eventualità che, se Gadiaga fosse stato soccorso anche solo 5 minuti prima, la sua morte si sarebbe potuta evitare. Per finire, poi, c'è un ulteriore elemento che dovrebbe far riflettere. Perché quell'uomo si trovava in una caserma dei carabinieri? Come abbiamo detto prima, il motivo era la sua condizione soggettiva, il suo stato di "clandestino".
Non aveva commesso alcun reato efferato, nemmeno un furtarello o lo spaccio di qualche grammo di hashish. Gadiaga, residente in Italia da vent'anni, aveva semplicemente perso il lavoro. Si è trovato così, con un permesso di soggiorno scaduto, come altri 684.413 stranieri nel corso del 2010. E ciò grazie a una legge persino più ottusa che iniqua. Il che dimostra come la "scena del delitto" prima descritta riveli, forse, le impronte digitali e l'identikit di molti possibili colpevoli.