Sembra non esserci nulla che coincida con la verità nella ricostruzione fatta dagli inquirenti di quello che successe l'11 luglio 2003 nella cella 21, sezione sesta, padiglione D del carcere delle Sughere. Nulla che torni nella storia delle ultime ore di Marcello Lonzi, morto a 29 anni nel penitenziario livornese dove era stato rinchiuso tre mesi prima per tentato furto.
L'ultimo verdetto, pronunciato in Cassazione a fine marzo, ha ripetuto il primo. Ufficialmente Marcello è morto di infarto, poco dopo essersi sniffato l'ultima dose di gas. Per la madre, Maria Ciuffi, i legali e i consulenti di parte, la versione fa acqua da tutte le parti, è piena di ombre e menzogne, e pensano sia morto di botte.
Si muore così nelle prigioni italiane. Se ne vanno quelli con la fedina penale appena sbucciata. Se ne vanno quelli che fanno numero - troppo numero - e fuori alla fine non si sa mai bene perché, come e per colpa di chi. Dopo 8 anni un'idea la danno Luigi Manconi e Valentina Calderone, che hanno inserito il caso Lonzi in Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri libro inchiesta sui buchi neri delle galere d'Italia.
"Per la procura di Livorno la dinamica è chiara fin da subito. Lonzi, vita da tossicodipendente, è morto per cause naturali. Ha avuto un attacco cardiaco e cadendo ha sbattuto la testa contro le sbarre", racconta Calderone, giovane coautrice del libro. Niente di più. Tanto che il pm chiede l'archiviazione nel luglio 2004 e il gip chiude il fascicolo nel dicembre dello stesso anno. Anche se un mese prima sul sito anarcotico.it erano apparse le foto shock della cella 21. Lonzi è steso all'interno con la testa rivolta verso la porta. Il viso è pieno di ferite, il collo, la schiena tumefatti. Sul pavimento ci sono macchie di sangue, alcune da trascinamento, altre da sgocciolamento.
"Una delle tante contraddizioni racconta Calderone - Per la procura erano state create dalle operazioni del medico legale. Il corpo era stato spostato fino in corridoio per facilitare i rilievi, dicono. Per alcune tracce la circostanza trova riscontro, ma altre sono gocce, come quelle che cadono dal naso o da un sopracciglio spaccato". Un'incongruenza non da poco, visto che la procura ha sempre sostenuto una dinamica tutta interna alla cella. Nei mesi e negli anni si aprono altri tunnel senza uscita. E conducono tutti verso il pestaggio.
"Si scopre che i secondini organizzavano squadrette punitive e portavano i detenuti nei sotterranei"; che l'agente che ha firmato il verbale sulla morte di Lonzi quel giorno non era in servizio. Poi il corpo viene riesumato: le costole rotte non sono due ma otto. Si riapre anche una seconda indagine, ma alla fine il risultato è lo stesso. "Morte per cause naturali". Non l'accetta Maria Ciuffi, che ieri è tornata a manifestare a Pisa, dove risiede. Con lei 20 persone si sono riunite in presidio in piazza Guerrazzi. "Non mi arrendo - dice - continuerò a cercare la verità e a pretendere giustizia". L'ultima speranza ora è la Corte dei diritti dell'uomo a Strasburgo.