Leggere un libro come "Vorrei dirti che non eri solo", parlare con l'autrice, Ilaria Cucchi, non è facile. Perché si prova un certo imbarazzo quando ci si trova di fronte a una dramma familiare: la morte di un ragazzo, Stefano, fratello di Ilaria. Una morte inspiegabile avvenuta dopo l'arresto per droga, per la quale sono sotto processo dodici persone. Per l'accusa Stefano Cucchi fu picchiato nelle camere di sicurezza del tribunale, in attesa dell'udienza di convalida, e poi lasciato senza assistenza. Questo lo portò alla morte.
Per suo fratello Ilaria ha scritto - insieme al giornalista Giovanni Bianconi - "Vorrei dirti che non eri solo" (edito da Rizzoli), di cui ha parlato a Sassari in un incontro, organizzato dall'associazione Turritana 52, durante il quale è stato anche presentato il libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone, "Quando hanno aperto la cella" (Il Saggiatore) che racconta di Stefano Cucchi e di altri ragazzi uccisi dallo Stato.
Cosa vi aspettate dal processo?
"Qualunque risultato riusciremo a ottenere, se l'otterremo, non servirà ovviamente a restituirci Stefano. Ma probabilmente potrà servire a qualcun altro, a far sì che queste vicende non si ripetano più. Fino a un anno e mezzo fa io ero tra quelle persone che ascoltano queste storie sempre con un certo distacco: tanto a me non capiterà mai e se gli è capitata in fondo se l'è cercata. E questa l'idea comune ed è il motivo per il quale la maggior parte di queste vicende finiscono nel silenzio".
Anche grazie a lei finalmente se ne parla.
"Guardandomi indietro vedo che sono stati fatti molti passi avanti dalla morte di Stefano a oggi. Perché quello che vedevamo all'inizio era silenzio e ipocrisia. Ci veniva detto che Stefano si era spento. Si parlava di morte naturale, poi che era caduto dalle scale, che Stefano si era lasciato andare. Ma tutto questo non era possibile, era ovvio che si trattava di bugie. Così facendo leva su tutta la nostra forza, su tutta la nostra rabbia e il bisogno di sapere abbiamo deciso di intraprendere questa battaglia e abbiamo avuto la fortuna di incontrare in questo nostro percorso tante persone che hanno creduto innanzitutto in noi, in quello che dicevamo, e ci hanno dato la forza, il sostegno, il coraggio di andare avanti".
Ma quanto è dura, difficile questa battaglia di fatto contro lo Stato?
"Credo sia una delle cose più difficili chiedere allo Stato di giudicare se stesso. Però la realtà dei fatti è questa: mio fratello era sotto la tutela dello Stato. In tanto momenti, nel libro, racconto della nostra travagliata vita per colpa dei suoi problemi con la droga. In tanti momenti avevo temuto per la salute di Stefano, ma in quei giorni in cui era detenuto nemmeno per un istante, nel peggiore degli incubi avrei potuto lontanamente immaginare quello che mio fratello stava vivendo e che sarebbe successo da lì a poco. Stefano è stato vittima del pregiudizio, è stato picchiato, è stato lasciato morire da dei medici che per quanto mi riguarda non sono degni di essere chiamati tali. E tutto nel disinteresse generale, alla totale insaputa della sua famiglia".
Ne viene fuori una situazione carceraria davvero preoccupante.
"Ho vissuto la realtà carceraria come una realtà assurda, fuori dal mondo, Mio fratello in quei sei giorni è stato inghiottito dal carcere, a noi nessuno diceva quello che stava capitando. Sappiamo che Stefano è stato picchiato nei sotterranei del tribunale, che è stato messo in atto un meccanismo di copertura e mio fratello è stato posto in una struttura del tutto inadeguata alle sue condizioni e con una procedura del tutto anomala. E tutto questo mentre mio fratello passava sotto gli occhi di chi l'aveva picchiato, dei medici che lo avevano abbandonato, e di una moltitudine di altre persone che hanno ignorato quello che stavano vedendo. Io non posso non pensare che se una sola di quelle persone avesse compiuto il suo dovere Stefano non sarebbe morto".
Il ruolo dell'informazione, spesso assente in queste vicende che faticano a emergere, quanto è stato importante nel vostro caso?
"Per quanto mi riguarda la realtà carceraria è davvero preoccupante. Per quanto mi riguarda il ruolo della stampa, dell'informazione pubblica è stato fondamentale. Sono convinta che se non avessimo fatto appello a questa, se non avessimo fatto le denunce pubbliche e non avessimo deciso di pubblicare le foto del corpo martoriato di mio fratello, non saremmo oggi qui a parlare della sua morte. Perché purtroppo la realtà e questa: in Italia per sperare di avere giustizia bisogna rivolgersi all'informazione, rendere la vicenda pubblica, altrimenti nessun pubblico ministero si prende la briga di indagare".
Ha accennato a quelle foto di suo fratello. La decisione di pubblicarle non deve essere stata facile.
"Le avevamo fatte scattare dall'agenzia di pompe funebri sperando di non vederle mai, però immaginavo che un giorno sarebbero potute servire. Ne abbiamo discusso a lungo, mia madre era contraria. Continuava a ripetere che Stefano non avrebbe voluto fasi vedere in quelle condizioni. Oggi quella decisione, che al momento mi sembrò terribile, sono sicura che è stata la svolta. Ogni persona che le ha viste si è resa conto che quello che stavamo dicendo era vero".