Anna cammina avanti e dietro per i corridoi dell'ospedale, risponde al cellulare e parla con i giornalisti. Non si scompone, non grida, non piange. Affronta il dolore con gran dignità. Ha solo 20 anni. Filomena invece scuote la testa, si allontana e scoppia in lacrime. Ha la stessa età di Carlo, 22 anni, e non riesce ancora a crederci. Rosario è il più piccolo, ha appena 17 anni e non dice una parola. Manca solo Ottavio, il più grande, 24 anni, non è potuto venire perché è ai domiciliari. Sono i fratelli di Carlo Saturno. Nel cortile del reparto di Rianimazione del Policlinico di Bari aspettano le 19.15, l'orario in cui il fratello sarà dichiarato ufficialmente morto dai medici.
Attorno si raduna una folla di parenti, amici, volontari. Hanno saputo che Carlo non ce l'ha fatta e vogliono stare vicini alla famiglia. "Mio fratello è entrato nel carcere con i suoi piedi ed è uscito dentro una bara - protesta Filomena - adesso vogliamo sapere chi l'ha ucciso". Le fa eco Anna. È lei la sorella coraggio che denuncia tutto. "In carcere lo picchiavano, ne sono convinta, lo hanno fatto fuori prima che potesse parlare e raccontarci quello che succedeva lì dentro. Non so se è vero che si è impiccato, ci hanno detto che lo hanno trovato attaccato con il lenzuolo al letto a castello ma com'è possibile? Il letto è alto 1.70, Carlo invece è alto 1.75. I conti non tornano. E se Carlo ha fatto quel gesto davvero è perché lo hanno costretto".
Si avvicina il marito di Anna, è lui che al telefono contatta gli avvocati. "Il referto del 118 parla chiaro: è stato trovato dopo mezz'ora che non respirava, che stavano facendo le guardie? Perché non se ne sono accorti prima? Abbiamo diritto alla verità. È l'unica cosa che ci rimane".
Arriva anche Gianni, il cugino. Lui è di Bari e di amici che sono passati dal carcere ne ha tanti. "Ci hanno detto che giocava a pallone, che lavorava, che stava bene. Aveva voglia di vivere non di morire". Eppure Carlo aveva già tentato di tagliarsi le vene alcune settimane prima. "È vero - ammette Anna - ma era un ragazzo solare, tranquillo, non è vero che era depresso. Il carcere lo ha fatto diventare così". La interrompe Gianni. "Proprio perché aveva già tentato il suicidio era sotto un regime particolare di sorveglianza. Doveva essere seguito 24 ore su 24. Invece è stato lasciato morire".
Sotto i portici del padiglione Asclepios ci sono anche la nonna, la cognata, la zia, le amiche di famiglia. Tutte donne. I mariti, i figli, i fratelli sono in carcere. Allora possono essere solo loro a raccontare. "Mio genero è rinchiuso carcere - spiega sotto voce un'amica - ed è uno forte, energico, impassibile, eppure si è tagliato le vene. Mi ha detto che non poteva più sopportare quello che gli facevano". "Per cercare la verità - suggerisce un'altra - bisogna andare in carcere. Solo lì potrete sapere la verità". "Dentro c'è mio marito - si inserisce una terza - le guardie terrorizzano i detenuti al punto tale da costringerli a farla finita". Un altro cugino, che in carcere ci è stato e conosce come funziona, spiega che gli agenti dai detenuti vanno sempre minimo in due. "Ci hanno detto che Carlo ha litigato con un agente e gli ha fratturato il polso ma mi devono spiegare come è possibile che sia riuscito ad aggredirlo se le guardie erano due e soprattutto - mima i movimenti di lotta - per avergli fratturato il polso vuol dire che si stava difendendo".
Ha letto la notizia su Internet ed è corsa al Policlinico anche Francesca, una volontaria della comunità di recupero di Ostuni dove Carlo è stato nel 2008. "L'ho conosciuto per pochi mesi quando era da noi. Lo avevamo convinto a riprendere gli studi, faceva l'istituto agrario, era contento, lo stavamo aiutando. In carcere nessuno svolge il ruolo che dovrebbe: rieducare i detenuti".