Ho letto che sarebbe bastato un bicchiere di acqua zuccherata per salvargli la vita. Invece Stefano Cucchi è morto di botte e di stenti nell'ala penitenziaria dell'Ospedale "Sandro Pertini" il 22 ottobre del 2009. Non fosse stato per la sua famiglia, e in particolare per la sorella Ilaria, la sua morte sarebbe passata inosservata.
Era stato arrestato nella notte del 15 ottobre per possesso di una piccola quantità di sostanze stupefacenti e immediatamente rinchiuso in un cella del tribunale in attesa del processo per direttissima. Tre agenti carcerari nella notte lo riempirono di botte ma i medici del "Pertini" e gli infermieri che avrebbero dovuto curarlo ignorarono le sue condizioni e lo lasciarono morire.
Da ieri sono tutti sotto processo. Tre agenti di custodia, sei medici e tre infermieri. Non fa più parte di questo drappello il funzionario del Dap, Claudio Marchiandi, che ha patteggiato la pena accettando così l'imputazione. Uno dei medici accusati, in una lettera aperta, ha sostenuto che Cucchi aveva rifiutato le cure ma non ha spiegato come mai non si erano accorti che il loro paziente era al limite della vita.
La morte di Cucchi è stato un episodio barbaro. Il compito del tribunale è di concludere con una sentenza giusta e severa una brutta storia. Comunque sia andata alcune cose sono chiare. Cucchi è stato malmenato a morte mentre era nella piena disponibilità dello Stato. La tutela della vita umana, e soprattutto quella di un cittadino privato di libertà, è una responsabilità primaria dei pubblici ufficiali. Non c'è più alcun dubbio sul fatto che Cucchi abbia ricevuto percosse mortali. Non è la prima volta che accade. Purtroppo.
Le difficili condizioni di vita e di lavoro degli agenti della polizia penitenziaria non assolvono tre di loro che hanno infierito su un povero ragazzo che non aveva alcuna possibilità di difendersi e che era stato loro affidato.
La viltà e la ferocia con cui è stato trattato Cucchi non ha alcuna giustificazione. Colpevole o innocente del reato che gli era stato imputato aveva diritto a difendersi e soprattutto all'incolumità. La scena che possiamo immaginare è degna di un lager non di una cella di detenzione di un paese civile. Altrettanto grave appare la situazione dei medici e degli infermieri del "Pertini".
Era nelle loro mani un giovane uomo ferito, incapace di difendersi e di far valere le proprie ragioni. Lo hanno abbandonato, sono persino accusati di aver falsificato le carte, e lo hanno lasciato morire. Si sono fatti anche loro carnefici e giustizieri mentre avrebbero dovuto spendersi per salvarlo dalla morte. Anche qui possiamo solo immaginare, con grande dolore, la sensazione di abbandono e di umiliazione di quel giovane che sentiva la vita sfuggirgli mentre tutto intorno quelli che avrebbero dovuto curarlo assistevano indifferenti ai suoi ultimi respiri.
Una condanna a morte con la moltiplicazione del boia. Se il tribunale proverà la loro colpevolezza, e nel grado di responsabilità che appartiene a ciascuno di loro, è bene che la sentenza di condanna sia esemplare. Non violiamo il precetto della presunzione di innocenza se tifiamo per una sentenza severa. Poche cose sono chiare come questa volta. Cucchi è caduto nelle mani delle forze dell'ordine sano, ne è uscito ferito gravemente, è stato abbandonato e consegnato alla morte in un pubblico ospedale. Da questo circuito delinquenziale non si può scappare. Fra chi lo ha catturato e chi lo avrebbe dovuto curare vanno cercati i suoi assassini.
Ogni violenza è deprecabile e sanzionabile dalla legge. Ogni sciatteria deontologica che porta i pazienti alla mercé di medici distratti o cinici va perseguita. Ma la violenza esercitata su una persona inerme è ancora più grave. In quelle ore terribili che hanno preceduto la morte Cucchi era solo al mondo. La sua famiglia ignorava il suo destino. Per quelli che lo avevano in custodia o che lo avrebbero dovuto curare era un essere umano anonimo.
L'idea che l'assenza di protezione possa scatenare comportamenti di ordinario sadismo chiede una ribellione civile. L'esemplarità della sentenza non deve esprimere la vendetta tardiva dello Stato verso i suoi pubblici ufficiali infedeli. La sentenza esemplare deve riaffermare il primato del diritto e delle persona umana. Chiunque sia a contatto con cittadini privati della libertà o con pazienti privi di appoggi ha il dovere di tutelarne l'integrità.
È una norma elementare del diritto moderno che è stata violata dagli agenti carcerari e dai medici e infermieri che sono responsabili della morte di Cucchi. Nella sua vicenda colpisce il disprezzo verso la persona umana e la sensazione di impunità che ha pervaso i protagonisti della sua tragica fine.
Si è creata una solidarietà fra aguzzini, i carcerieri e i medici, che fa parte della letteratura concentrazionaria ma che dovrebbe essere bandita dalla vita normale dei nostri istituti di pena. Purtroppo spesso non è così. Purtroppo giriamo la testa dall'altra parte quando sentiamo raccontare storie di abusi nelle carceri, negli interrogatori, durante il trasporto degli accusati. Purtroppo non è la prima volta che sentiamo storie di medici che non vedono quel che dovrebbero vedere e non denunciano. Il ricatto che viene esercitato sulla pubblica opinione con l'esibizione dei tanti che fanno onestamente e con generosità il loro lavoro, nelle carceri e nelle infermerie penitenziarie, non può spingersi fino al punto da ignorare quelle volte che la legge e l'umanità sono violate.
Il Tribunale deve accertare la verità ma deve anche spiegare come sia stato possibile che ciò sia accaduto. La sentenza deve portare alla luce la catena di comando per capire come e perché sia successo che un giovane abbia perso la vita in quel modo crudele. In modo che giustizia sia resa a Stefano Cucchi e alla sua famiglia e nessuno possa mai più azzardarsi a compiere un delitto così infame.