Non è cambiato quasi nulla nel carcere di Capanne, a Perugia, dall'autunno del 2007, da quando Aldo Bianzino vi trovò la morte meno di 48 ore dopo il suo arresto. "Quasi" significa che ancora oggi restano alti i livelli di discrezionalità da parte della polizia penitenziaria la valutazione dell'opportunità di una visita medica in presenza di un detenuto che si lamenta. Anche dovesse contorcersi dal dolore. Però la prassi ha fissato da allora una visita medica più rigorosa per i nuovi arrivi. E questo potrebbe dirla lunga in fondo al processo che è iniziato a Perugia a tre anni e mezzo da quel 12 ottobre in cui Aldo Bianzino e la sua compagna Roberta Radici vennero arrestati dalla polizia con l'accusa di possedere e coltivare alcune piante di marijuana. Ma l'avvio del processo registra anche l'estromissione dalle parti civili del Comitato Verità per Aldo e dell'associazione A buon diritto. E non si tratta di segnali positivi. Anche Gioia Toniolo, la donna con cui Bianzino ha avuto due figli, ha rischiato la stessa sorte. Il pm, infatti, ha sostenuto che non avrebbe subito alcun danno dalla morte del pacifico ma squattrinato ebanista. «Un attacco a una donna e, perdipiù, a colei che ha chiesto subito l'autopsia per Aldo con cui aveva mantenuto un rapporto fraterno», commenta Patrizia Cirino dell'Associazione Verità per Aldo.«Non ci aspettavamo una tale mancanza di rispetto visto che non essendo divorziata aveva diritto comunque ad un assegno di mantenimento. Ma avendo due figli con Aldo è davvero difficile sostenere che non abbia subito alcun danno morale da quella morte», spiega a Liberazione Fabio Anselmo, legale di alcuni figli e familiari della vittima del carcere, che è riuscito a ribaltare la richiesta del pm anche per quanto riguarda il tentativo di vietare riprese video. Il giudice lo ha motivato col timore che un processo che prevede pene fino a un massimo di due anni venga associato ad altri più importanti. Non ha fatto nomi il giudice però la presenza di Anselmo, legale dei familiari di Aldrovandi, Cucchi e Uva spiega fin troppo l'imbarazzo per l'ennesimo processo al lato più oscuro dei trattamenti polizieschi e penitenziari.
Reiterata omissione di soccorso e falsificazione di pubblici registri sono i capi di imputazione per l'unico imputato, un agente di polizia penitenziaria. Ma il comitato Verità per Aldo ha sempre sostenuto che si tratta di un'accusa monca. Quando una persona muore potrebbero esserci gli estremi di un omicidio colposo. Particolarmente grave l'esclusione dalle parti civili - e un po' strano che l'abbia chiesta il pm - delle associazioni che hanno denunciato immediatamente le anomalie della versione ufficiale sulla morte del detenuto. Ma il pm è lo stesso che lo arrestò e che curò le indagini preliminari senza dialogare granché con familiari e comitati.
Il 14 ottobre 2007 alle 8,15 la polizia penitenziaria trova Aldo agonizzante. Le prime indiscrezioni accreditano l'infarto ma il perito prima rivela diverse gravi lesioni di origine traumatica per fornire in seguito una versione più tranquillizzante. L'inchiesta per omicidio volontario è stata archiviata con la solita dicitura: "Cause naturali". La morte, secondo la perizia medico-legale, è stata provocata dalla rottura di un aneurisma cerebrale: la lesione epatica definita «estranea all'evento letale», il decesso attribuito a cause naturali, escludendo l'esistenza di aggressioni nei confronti della vittima.
Nel frattempo Roberta Radici si è spenta pochi mesi dopo. Ora i tre figli di Aldo Bianzino, suo fratello, i suoi genitori e la sua ex moglie, assieme al comitato Verità per Aldo continuano a chiedere l'integrazione del capo di imputazione. «Se raccontare è resistere, è tempo di resistere a indagini inquinate, manipolazioni d'informazione, istruttorie lacunose frutto di conflitti d'interesse (l'attività investigativa viene anche svolta da appartenenti alla polizia penitenziaria in servizio a Perugia), tentativi di insabbiamento, richieste di archiviazione», ha scritto Cirino tre anni fa. Ed è ancora un'urgenza.