Stando a quello che si sa fino a oggi, sul corpo di Yuri Attinà "dopo un esame accurato non sono emersi segni di percosse o violenza". Lo ha riferito ieri il consulente di parte nominato dalla famiglia dopo l'autopsia, effettuata dal medico legale Luigi Papi.
Rimangono i dubbi espressi dai familiari che riferiscono di aver potuto vedere il corpo del ragazzo fino al busto, e di avere riscontrato macchie violacee sul collo e sulla schiena. Rimangono gli ulteriori dubbi espressi dagli stessi familiari e da chi lo conosceva come un ragazzo forte e robusto, per nulla sofferente di problemi cardiaci.
In assenza di nuovi elementi (si prospettano ulteriori analisi per stabilire con maggior precisione la natura del decesso) questa, al momento, rimane la verità ufficiale. L'autopsia non ha rilevato le cause della morte improvvisa di Yuri, ed è stata ventilata l'ipotesi di un decesso dovuto all'inalazione di gas dalle bombolette da campeggio in dotazione ai detenuti per scaldare il cibo: una pratica assai diffusa all'interno delle carceri italiane e delle Sughere in particolare per ottenere un temporaneo effetto di "sballo". Ma di questo parleremo dopo.
Urgono in primo luogo alcune considerazioni. Pestaggio o meno, il decesso di Yuri rimane, a prescindere, una morte di Stato. Lo Stato aveva in consegna il suo giovane corpo e Yuri aveva lo stesso diritto alla salute che spetta ai cittadini "liberi" e, secondo gli stessi codici che vorrebbero dare una parvenza di umanità a quella discarica sociale che sono le carceri italiane, una volta scontata la pena sarebbe dovuto uscire dal carcere sulle sue gambe così come era entrato.
Ma sappiamo bene a quali disumane procedure sono sottoposte le persone detenute, che tra permessi dei magistrati di sorveglianza, strutture sanitarie penitenziarie inesistenti o insufficienti e inefficienti, vedono pregiudicati gli interventi sia ordinari che d'urgenza dietro le sbarre.
Risuonano sinistramente tragiche le parole della sorella di Yuri pronunciate davanti alle telecamere, durante l'affollato presidio svoltosi ieri davanti al carcere delle Sughere: "Non penso che i tossicodipendenti debbano finire in carcere, ci sarebbe piuttosto bisogno di strutture alternative. Però pensavamo che la permanenza in carcere gli avrebbe fatto bene, almeno sarebbe rimasto per un po' lontano dalle sostanze...".
Non staremo qui a ribadire ancora una volta il degrado in cui versa il sistema penitenziario italiano. I numeri sono conosciuti, e da qualche tempo anche i quotidiani e i mass media nazionali sembrano essersene accorti, proprio sulla scorta dai casi più famosi e "presentabili" di detenuti deceduti nelle carceri italiane.
Lo stesso Tirreno di Livorno, in genere refrattario ad approfondire tematiche scomode e controcorrente, nei giorni immediatamente seguenti alla morte di Yuri ha reso pubblici i dati che riguardano il famigerato carcere di Livorno: segno anche questo che la misura è colma. Le Sughere contiene una popolazione carceraria con il 64% di persone in più rispetto alla sua effettiva capienza, è il secondo carcere in Italia come numero di tentati suicidi, e vanta il triste record di 20 morti in 10 anni, molti dei quali attribuiti alle famigerate bombolette del gas.
Già, le bombolette. In carcere esistono pochi modi per passare il tempo. Uno di questi è la cucina, per cui la possibilità di cuocere i cibi è essenziale. L'amministrazione penitenziaria mette a disposizione piccole cucine da campeggio, con cui i detenuti fanno tutto, dal caffè ai piatti più complicati.
Da sempre le bombolette del gas distribuite ai detenuti vengono usate anche per altri scopi: l'inalazione del gas provoca sonnolenza e uno stordimento simile alle droghe leggere, e molti detenuti ne approfittano per sballarsi e non pensare. Nulla di diverso da quanto, in maniera legale, viene propinato in maniera massiccia dalla stessa amministrazione penitenziaria: è veramente difficile che chi sia "dentro" non faccia uso di "gocce", ovvero di dosi massicce di psicofarmaci somministrate a chi ne faccia semplice richiesta.
Con conseguenze nefaste a livelli di dipendenza accentuata, con danni alla psiche e al sistema nervoso. Da parte dell'amministrazione penitenziaria la somministrazione di psicofarmaci e la tolleranza per l'uso del gas ha dunque una palese motivazione: torna comodo stordire i detenuti, meno propensi in questo modo a dare problemi e a scomodare le guardie, soprattutto in periodo di crisi e di taglio al personale di sorveglianza.