Il triste abaco che contabilizza il numero di vittime avvenute "nelle mani dello Stato" (per citare l'etichetta utilizzata dalla trasmissione "Lucarelli racconta " di lunedì 6 dicembre andata in onda su Rai Tre) imperterrito avanza fino a far segnare 170 morti da inizio anno all'interno delle carceri, 65 dei quali per suicidio.
A queste cifre andrebbero poi aggiunti coloro i quali, per svariate ragioni, hanno perso la vita ancora prima di varcare la soglia della prigione, ma tuttavia già sotto la responsabilità di un apparato statale.
L'ultimo caso di cronaca in ordine cronologico si riferisce alla fine di Alhdy Saidou Gadiaga, operaio senegalese di 36 anni morto domenica 12 dicembre nella camera di sicurezza della caserma dei carabinieri di Brescia. L'uomo era stato posto in stato di fermo in seguito ad un controllo di routine in quanto trovato sprovvisto di documenti validi poiché in seguito alla perdita del lavoro non aveva avuto la possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno.
Era tuttavia in possesso di certificato medico rilasciato dal Pronto Soccorso dell'Ospedale Civile che ne attestava le precarie condizioni di salute, condizioni le quali lo avevano indotto a restare in Italia per curarsi; in accordo alla diagnosi dei medici il senegalese soffriva di asma cronica.
Nel rispetto della legge Bossi-Fini i militari hanno trattenuto l'operaio bollato come "clandestino da rimpatriare" rinchiudendolo nella cella della camera di sicurezza all'interno della quale, lo confermano gli stessi carabinieri, la temperatura in questa stagione fatica a superare i 5 gradi. La permanenza di 36 ore è stata fatale all'uomo le cui condizioni di salute, aggravate dalla patologia, lo hanno portato al decesso. Sulla dinamica della morte la versione dei militari contrasta con quella del compagno di Saidou circa la tempistica della chiamata al 118 rispetto al sopravvenire del malore.
Un'inchiesta chiarirà (speriamo) la verità di questa ennesima squallida vicenda, ma quello che vorremmo sottolineare è la gravità della situazione e l'elevato pericolo che fatti di questo genere possano ripetersi. Lo scenario è semplice nella sua drammaticità: in Italia lavorano, in condizione precarie migliaia di immigrati, la cui vita è legata ad un foglio, il permesso di soggiorno. La sopravvivenza di tale salvacondotto è legata indissolubilmente alle condizioni lavorative, in assenza o nella perdita delle quali, la stessa persona si tramuta immediatamente in criminale (così è considerato chi contravviene ad una legge dello Stato, e così accade all'immigrato che perde il lavoro).
Basta poco ed un immigrato qualunque, come tanti, magari tranquillo più di tanti, magari rispettoso più di tanti, assume lo status di delinquente per lo stesso motivo di esistere. Questo è ciò che avviene di fatto, in quanto la perdita del lavoro è inquadrabile unicamente come un'azione passiva subita dal soggetto e non come una iniziativa delittuosa intrapresa dallo stesso.
Ergo, se ne può trarre una mostruosa "equazione sociale": lavoratore immigrato civile ed onesto improvvisamente privato di un contratto di lavoro uguale a clandestino irregolare da rispedire in patria. Noi non siamo certo qui a difendere coloro i quali, presenti in Italia, senza la volontà della ricerca di prospettive lavorative che permettano loro di condurre una vita dignitosa, delinquono liberamente, ma in maniera altrettanto certa possiamo e vogliamo affermare il principio secondo il quale una persona non può essere trasformata in criminale senza avere intrapreso una condotta in tal senso.
Noi riteniamo che una legge di tal genere agisca quantomeno in maniera "impulsiva", (del resto è stata varata in un contesto di fibrillazione emotiva) ossia prescinda completamente dal pregresso del soggetto che si vede affibbiare l'etichetta di clandestino indesiderato pur senza avere commesso reati "di fatto". A meno che la sua stessa esistenza su un determinato suolo non venga considerata reato. Questo è ciò che accade, con buona pace del rispetto dei diritti umani e della dignità della persona.