La Costituzione e le leggi italiane in materia di detenzione sono illuminanti: basta scorrere l'Art. 27 della Carta: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".
Oppure si può leggere l'Art. 1 della Legge n. 354 del 26 luglio 1975: "Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose. [...] Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari".
Il caso di Fernando Paniccia, ventisettenne di Frosinone morto il 27 dicembre nel carcere di Sanremo (pare per arresto cardiaco) è emblematica di quanto, al di là delle nobili intenzioni, la legge, nei fatti sia rimasta pura enunciazione di principio. In effetti, la morte in carcere di Paniccia, un metro e novanta di altezza per 186 chilogrammi, epilettico, invalido al 100% e gravemente ritardato (e quindi per definizione incapace di intendere e di volere) é il capolavoro di un sistema infame, feroce, classista.
Nel mondo reale non è vero (come pure pretenderebbe la legge) che il "trattamento" carcerario viene applicato in modo indiscriminato a tutti i condannati. Paniccia, ad esempio, ha iniziato la sua "carriera" di carcerato nel 2003, a seguito di un brillante arresto messo a segno dai militari dell'Arma in flagranza di reato: il ragazzo aveva infatti sottratto tre palloni di cuoio da un centro sportivo dove si era recato, assieme al fratello, a svolgere dei lavori di manutenzione. Niente meno.
Un episodio che, con la sua crudele ironia, ricorda che la giustizia somministrata dallo Stato finisce per essere (non da ora e non solo da noi) un fatto di classe: essa è infatti tanto rigorosa con ritardati, sans-papier, tossicodipendenti, poveri - in una parola, con gli ultimi - quanto permissiva con i potenti, quelli che hanno i mezzi per assicurarsi i servigi di un abile avvocato, quando non arrivano addirittura (anomalia tutta italica questa) a scriversi qualche legge su misura per evitare la galera o anche solo per evitare di pagare le tasse.
Sarebbe interessante capire in base a quale abominio burocratico una persona disabile come Paniccia sia stata rinchiusa (e sia rimasta sepolta) in carcere: non solo infatti lo impedirebbero (oltre al buonsenso) la Costituzione e la legge 354/1975, non potendosi considerare in questo caso la reclusione compatibile con "il senso di umanità", ma anche due articoli dell'Ordinamento Penitenziario (O.P.). Come ricorda infatti Francesco Morelli di "Ristretti Orizzonti" (ONG che si occupa del mondo carcerario), l'art. 47 ter dell'O.P., tra gli altri casi, prevede la carcerazione domiciliare per le persone condannate a pena detentiva residua di meno di quattro anni "in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali"; mentre l'art 11 lascia intendere che possa essere perfino il direttore del carcere a disporre il trasferimento di un detenuto in luogo di cura esterno "nei casi di assoluta urgenza".
Per quanto possa sembrare incredibile, in Italia vi sono almeno 500 persone nelle stesse condizioni di Paniccia: detenuti a dispetto della loro disabilità. Il numero sarebbe in sé già abbastanza preoccupante, se non fosse necessario registrare una circostanza ancor più grave: la palese indifferenza dello Stato di fronte a questa vergogna. Pare infatti che le statistiche sui disabili in carcere siano ferme al 2008; le schede relative alle rilevazioni del 2009 sono state sì somministrate ai vari istituti di pena per la compilazione, ma poi non se ne è fatto più nulla. Non solo, insomma, chi dovrebbe punire i criminali si comporta da criminale, ma non sente alcun impulso ad emendarsi.
Del resto la situazione delle carceri italiane è ormai fuori controllo, come racconta la fotografia scattata dalla Ong Antigone a fine ottobre, in occasione della pubblicazione del suo Settimo rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia: 69.000 detenuti a fronte di una capacità di "accoglienza" pari a 45.000 unità.
Il che significa che nelle carceri italiche è stipato un numero di detenuti pari ad una volta e mezza la capienza massima; poco meno della metà (il 44%) di loro è imputata (!), mentre il 22% è in attesa di giudizio; oltre il 40% è coinvolto in vicende di droga (dato, questo, più eloquente di qualsiasi comizio anti-proibizionista).
C'è anche chi non ce la fa ad uscirne vivo: 65 sono stati i suicidi, cui si devono aggiungere quelli registrati tra le guardie carcerarie.
Qualcuno ne parla? Mica tanto. All'onore delle cronache sono assurti solo alcuni casi particolarmente clamorosi, le cui vittime erano italiani con una famiglia o degli amici in grado di fare un po' di rumore sui media, anche se troppo tardi. Una piccola "chicca" riguarda i bambini: sono in 57, al di sotto dei 3 anni, a trovarsi nelle galere nostrane.
Un autentico disastro, che però fa poco notizia in un Paese che le chiacchiere senza costrutto hanno stordito al punto da fargli perdere ogni senso delle priorità politiche, quindi umane. Un po' come è successo, per un attimo, quando è toccato a Paniccia, ladro di palloni.