La svolta è arrivata ieri mattina, quando il sostituto procuratore Alberto Lari ha aperto ufficialmente l'indagine per "istigazione al suicidio". E il passaggio successivo, altrettanto importante, è stata la richie sta d'un dettagliato dossier alla direttrice del carcere, mentre nelle prossime ore sarà eseguita l'autopsia all'istituto di medicina legale del San Martino.
C'è qualcosa che non torna, nella morte di Marco Fiori, il ventiquattrenne che domenica sera si è impiccato nel penitenziario di Pontedecimo, legando una corda nel bagno. O meglio: i passati problemi della vittima, che già in due occasioni aveva provato a togliersi la vita ed era inquadrato quale "detenuto ad alto rischio", come potevano conciliarsi con il recentissimo trasferimento nella cella di Fabrizio Bruzzone, carabiniere assassino a sua volta considerato borderline?
È questo il nocciolo degli accertamenti, che devono dar risposta a due domande delicate. Primo: si poteva in qualche modo evitare il suicido, c'è stata qualche falla (burocratica) nel meccanismo che non ha infine saputo evitare la tragedia? E soprattutto: c'è chi potrebbe aver spinto Marco a compiere un gesto estremo?
Non è un mistero che, da subito, il caso di Fiori fosse stato considerato anomalo. Il giovane era infatti agli arresti dal 7 maggio scorso, quando fu bloccato a San Fruttuoso dopo aver rapinato un supermercato per pagarsi debiti di droga. Sulle prime era stato dipinto come il bandito che aggrediva e derubava le anziane del quartiere, e per questo "punito" con una violentissima aggressione a Marassi. In altre due occasioni era stato invece picchiato perché aveva contribuito con le sue dichiarazioni a incastrare una banda di spacciatori, o per aver semplicemente incrociato un folle durante l'ora d'aria. Fatto sta che, profondamente depresso, era stato trasferito a Pontedecimo e qui aveva cercato la morte: prima inalando gas dalla bomboletta in dotazione per cucinare, quindi tagliandosi le vene.
Proprio perché instabile (da ragazzino era stato riformato dal militare per questioni comunque psicologiche) la direttrice Maria Milano aveva chiesto che fosse accompagnato in una struttura protetta, a Torino. La sua pratica era già al vaglio del tribunale di sorveglianza (che ha competenza su tutto ciò che riguarda carcerazione o buona condotta) e il nome di Marco Fiori risultava inserito in una lista d'atte sa, ma evidentemente non s'è fatto in tempo.
E però nell'opinione del pubblico ministero è probabilmente un altro, l'aspetto che va chiarito definitivamente e chiama in causa gli ultimi dieci giorni di vita della vittima. Recentemente, infatti, Fiori aveva chiesto d'essere spostato e la sua non era stata una proposta come tante, in quanto può capitare sovente che i detenuti aspirino a nuove sistemazioni. Fiori aveva espresso la volontà di condividere i pochi metri quadrati nei quali si svolge quotidianamente la vita dietro le sbarre con Fabrizio Bruzzone, il carabiniere che l'8 agosto scorso uccise a coltellate la moglie Mara Basso. Lo stesso che sabato, ventiquattro ore prima di Marco, ha tentato a sua volta di uccidersi in cella.
Secondo alcune indiscrezioni filtrate nelle ultime ore, Bruzzone avrebbe sussurrato durante un colloquio che era stato proprio il nuovo compagno a salvarlo, prima che intervenissero gli agenti penitenziari. Che cosa ha poi innescato la sua scelta di farla finita, con chi potrebbe aver parlato, di cosa? "Non dovevano lasciargli le lenzuola" insiste il legale Carlo Contu, dando voce alle parole di Giovanni Fiori, padre di Marco.
Il primo passo è rappresentato dall'autopsia, per capire almeno come è morto Marco. Poi il dossier che scandisca i tempi ed eventualmente qualche interrogatorio. La legge è chiara. Per contestare l'istigazione al suicidio, è necessario dimostrare che qualcuno abbia determinato o rafforzato il proposito di uccidersi. Difficilissimo, ma s'è deciso di vederci chiaro.