"Noi non c'entriamo, la divisa non ha colpa". Si congeda con queste parole il maresciallo dei carabinieri che aveva portato alla madre di Stefano Cucchi la notizia del decesso del figlio, esattamente un anno fa nel reparto penitenziario dell'ospedale Sandro Pertini. Non una imbarazzata frase di circostanza ma l'annuncio di una programmatica impunità.
L'episodio è rivelato da Stefania Cucchi nel libro scritto insieme al giornalista del Corriere della Sera Giovanni Bianconi, Vorrei dirti che non eri solo. Storia di Stefano mio fratello, Rizzoli. Di frasi del genere in questa terribile storia che racconta l'oscenità del potere che si impossessa dei corpi, se ne trovano altre, come quella pronunciata da un altro uomo in divisa davanti al reparto dove Cucchi è morto, "Ci sono tutte le carte a disposizione. Se volete potete controllare, noi siamo tranquilli". L'accesso alle carte sarà invece un percorso labirintico, per nulla spontaneo, dovuto unicamente all'attenzione politico - mediatica accesa sul caso dalla pubblicazione delle foto del corpo straziato di Stefano sul tavolo dell'obitorio e dalla caparbietà della famiglia costretta a rinunciare al proprio lutto privato.
Le denunce pubbliche innescheranno una doppia inchiesta, parlamentare e amministrativa, arrivando lì dove l'indagine penale da sola non sarebbe mai giunta senza tuttavia dissolvere molte ombre. L'autoassoluzione preventiva appartiene alle caratteristiche peculiari delle burocrazie repressive. È parte del patto tacito stipulato con le gerarchie in cambio della fedeltà e dei servizi prestati, spesso inconfessabili. Non a caso a sancire l'irresponsabilità è arrivato anche il capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, che a conclusione dell'inchiesta ministeriale affermava "Gli accertamenti amministrativi hanno rilevato fin qui l'assenza di responsabilità da parte della polizia penitenziaria", nonostante l'indagine interna redatta dal numero due del Dap, Sebastiano Ardita, traesse ben altre considerazioni.
"Quando ho potuto leggerla - afferma Ilaria Cucchi - mi sono resa conto che si stava tentando di celare perfino quanto scoperto dalle stesse istituzioni". A fargli compagnia le dichiarazioni preventive del ministro della Difesa Ignazio La Russa in favore dell'Arma dei carabinieri, quando le indagini erano ancora al punto di partenza, e la sortita ignobile del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega al lotta contro le tossicodipendenze, Carlo Giovanardi, per il quale Cucchi se l'era cercata.
In questa gara all'esportazione delle responsabilità non è stata da meno neanche la Asl competente per territorio sull'ospedale Pertini, che appena dieci giorni dopo il trasferimento in via cautelare reintegrava il personale sanitario indagato. Eppure nei sei giorni che l'hanno separato dall'arresto fino all'ultimo respiro Stefano Cucchi non ha fatto altro che passare di mano da una divisa e l'altra attraverso caserme, camere di sicurezza, carceri, reparti penitenziari di ospedali. In realtà le divise e i camici, inquadrati da altre divise, nella sua morte c'entrano eccome.
"In tutte le tappe che hanno visto Stefano Cucchi imbattersi nei vari servizi di diversi organi pubblici, emerge una incredibile continuativa mancata risposta alla effettiva tutela dei diritti", afferma il rapporto interno del Dap che riassume così il calvario del giovane: "Assenza di comprensione del disagio, mancata assistenza ai bisogni, trattazione burocratica della tragica vicenda personale e in alcuni casi assenza del comune senso di umanità, si sono susseguiti in un modo probabilmente non coordinato e con condotte indipendenti fra loro, ma con inesorabile consequenzialità".
Il tutto condito da tante violenze, prima durante e dopo, testimoniate da un corpo fratturato e pieno di ematomi. A Cucchi, come recita la canzone di De André, non l'uccise la morte ma chi volle cercargli l'anima a forza di botte. Il libro è la testimonianza dolorosa del percorso di una famiglia legata a valori tradizionali, "religione, legge e ordine", che proprio per questo scopre il tradimento delle istituzioni in cui ha sempre creduto. Una presa di coscienza che fa dire a Ilaria, "sorella coraggio", di aver sentito dire in giro che la morte del fratello fa parte di quegli incidenti "inevitabili conseguenze di pratiche e comportamenti che servono a tutelare la sicurezza della collettiva.
Forse anch'io, un tempo, mi sarei lasciata andare a cose simili ma oggi so che sono inaccettabili. Perché non ci può essere un motivo valido per cui un ragazzo debba morire in un carcere o in una caserma. Non deve accadere, né deve accadere che l'opinione pubblica lo giustifichi come uno sgradevole inconveniente". Ad Ilaria e alla famiglia diciamo una cosa sola: non vi lasceremo mai soli.